La terra sulla faccia
Agosto 5, 2005 in il Traspiratore da Redazione
No? Neanche io. Vorrei essere il primo insetto diplomatico”
Brundle-mosca
“Ho scelto da tempo il luogo della mia ultima dimora” recita l’eroe portandosi la mano sulla ferita al petto. La ragazza al suo fianco (strafiga in lacrime) lo chiama più volte, sempre più disperata. Lui chiude gli occhi. Poi la testa si piega mentre la mano scivola lentamente lungo il fianco.
Inquadratura del prato, primissimo piano di un soffione (o dente di leone) e di un’ape che ci ronza attorno.
“Adesso sei a casa” singhiozza la ragazza, mentre il sole sublima all’orizzonte in un tramonto che impreziosisce d’oro ogni filo d’erba della valle…
Sarebbe bello andarsene così. Da metterci la firma. Tuttavia non sono queste le immagini che affollano i nostri pensieri quando, non senza una certa qual pelle d’oca, proviamo a pensare all’istante in cui distenderemo le gambe. La prima sensazione è quella di freddo. La nostra pelle, gelida, sotto le labbra dei nostri cari venuti a darci l’ultimo saluto. Poi l’odore. Spero di non decompormi troppo in fretta, sì, cioè: almeno finché la bara è aperta e ci sono i parenti…
Al “dopo” non vogliamo neanche pensare. Immagini rubate a telefilm come CSI: corpi coperti di vermi e larve in frenetica attività, poliziotti che svengono tanto è forte il tanfo della decomposizione.
Troviamo sollievo immaginando bare a chiusura stagna, ermetiche, chiuse con lunghe viti filettate e copriviti. E naturalmente sepoltura non-a-terra, ma in molto più igienici (?) loculi di cemento, a voler proprio strafare in tombe di famiglia con lastre in marmo, ghirigori in alabastro, cornice portafoto in argento e lumino elettrico alimentato 24 ore su 24.
L’idea della terra e di quello che succede “sotto terra” ci disgusta nel profondo, facendoci seriamente riflettere anche sull’opzione “cremazione”. Ma da dove arriva questa paura? Cos’è che non va, in un processo naturale (la morte e il conseguente collasso delle carni) che esiste da quando esiste la vita?
Anzitutto una subconscia convinzione di sofferenza. Dolore, durante la decomposizione.
Paura infondata, a detta dei medici, ma difficilmente dimostrabile, vista l’impossibilità di interrogare l’attore principale della scena.
Poi sicuramente il senso di profanazione. E dulcis in fundo: la solita insetto-fobia.
Con quest’ultima non siamo disposti a scendere a compromessi: gli insetti ci fanno schifo. Odiamo le mosche che ci importunano in campeggio mentre siamo a tavola e che per di più portano malattie, stermineremmo tutte le zanzare del mondo, che d’estate ci punzecchiano attorno alle caviglie sbattendosene allegramente dell’Autan e delle spiralette Zampirone. Tolleriamo le api solo perché ci danno il miele, buono per la tosse, e perché da bambini guardavamo il cartone dell’Ape Maia, ma troviamo inutili le vespe, i calabroni, i tafani e le libellule. Non schiacciamo le coccinelle perché qualcuno ha detto che portano fortuna, ma per maggiolini, cimici e afidi, esiste solo il tacco delle nostre scarpe. Non parliamo dei ragni: alzi la mano l’ultimo che ne ha preso uno in mano. Nessuno? Nemmeno lì in fondo?
E noi dovremmo tollerare che simili bestie immonde banchettino con le nostre spoglie?
Inimmaginabile un torto del genere proprio a noi, che stiamo in cima alla catena alimentare, e che mai ci sogneremmo di farne parte. La rana mangia la zanzara, il serpente mangia la rana, il falchetto mangia il serpente… okay, fin qui tutto bene. Ma non parliamo di prendere parte a questo ciclo, siamo UOMINI, noi, mica caporali, tanto meno companatico.
Noi che agli animali facciamo proprio di tutto. Che alleviamo le galline in batteria, ossia in gabbie grandi quanto una scatola da scarpe, in modo che non possano far altro che mangiare ed espellere uova. Che sterminiamo gli elefanti, mastodonti di sette tonnellate, per cavar loro le zanne (come se qualcuno uccidesse un uomo per rubargli i denti). Che tuffiamo le aragoste ancora vive nell’acqua bollente, perché le carni non perdano in fragranza. E ancora: che freddiamo i rinoceronti per il loro corno, erroneamente convinti che sia un viagra naturale, e che piantiamo cannucce nella cistifellea di un orso, tenendo la bestia in vita per settimane fra atroci sofferenze, finché non muore di dolore.
Durante le grigliate all’aperto, sgranocchiando una costina o affettando finemente del salame, ripetiamo compiaciuti che del maiale non si butta via niente. Ed infatti sfruttiamo fino all’ultimo lembo di carne il versatilissimo animale, arrivando persino ad utilizzare le setole per la produzione delle spazzole.
E con tutto ciò noi vorremmo sottrarci al nostro dovere, sfuggire al ciclo della vita, ingannare il naturale corso degli eventi facendoci seppellire sotto vuoto, o cremare, o criogenizzare?!? Ma dovremmo immolarci, nei confronti del Grande Meccanismo, essere fieri di andare a concimare la terra, di far parte del “disegno”! Dopo una vita spesa a sfruttare la natura, sarebbe equo poter fare finalmente la nostra parte, nutrire gli animali e le piante, ESSERE PARTE DI.
Forse, il modo migliore per pareggiare la situazione, dopo una vita spesa a consumar bistecche alte un dito, affettati sapientemente stagionati, ed il buon pane e prosciutto della mamma, sarebbe nell’istante della propria morte poter offrire il proprio corpo ai maiali. Eccomi qui, prendetemi, finalmente saldo il mio debito, sapeste quanti di voi sono passati per la mia fetta di pane, il fido Naso-che-corre, il saggio Sgrufola, e naturalmente la malinconica Matilda.
Difficilmente realizzabile, a meno di spirare in campagna e di avere un fidato amico che ti trascini nel recinto per i talloni.
Nel frattempo: eccomi qui mosca della carne.
di Nohope4u