Le seduzioni della carnalità
Ottobre 20, 2004 in Arte da Sonia Gallesio
Per me il passato è sempre presente […]. Tanto per dire, Gesù è ancora l’immagine maschile più erotica della pittura odierna… [Marlene Dumas, da Il concetto di rilevanza, tratto da Contemporanee, di Emanuela De Cecco e Gianni Romano, Postemedia Srl, 2002]
Marlene Dumas (Kuilsrivier, Sud Africa, 1953) è una tra le più apprezzate pittrici figurative del momento. Paradossalmente, nelle sue tele distacco e coinvolgimento appaiono in perfetto equilibrio. Le sue immagini sono disturbanti, talvolta stridenti, spesso esplicite. Tossiche, avvelenate, a tratti indigeste e a volte estremamente seduttive ed attraenti. Come spiega Ilaria Bonacossa in catalogo “l’atmosfera di tensione che emana dai suoi quadri crea un senso di sospensione vagamente erotico. In questo modo riempie di movimento e transitorietà un mezzo espressivo come la pittura, solitamente considerato statico”.
Nell’opera di Dumas, in modo più o meno manifesto, e comunque mediante l’indagine della figura umana in tutta la sua carnalità ed espressività, ci sono riferimenti al razzismo e alla discriminazione sessuale, all’apartheid, all’infanzia e alla maternità, alla religione, alla pornografia e alla perversione. La sua è un’arte mai del tutto priva di sottintesi, dunque, che suggerisce molteplici chiavi di lettura, e che in nessun caso vuole apparire fine a se stessa. Del resto, Marlene sostiene che la confusione – quel turbamento che è causa-effetto dell’apertura mentale – sia la reazione più positiva che l’uomo possa aspettarsi da sé. Nei suoi lavori vi è un senso di perenne conflittualità, sempre accompagnato, tuttavia, da una visione lucida, arguta ed ironica. Ciò che l’autrice fa è dar vita, tenacemente, ad un raffronto con ciò sul quale si è fondata la cultura della rappresentazione fino ad oggi, ossia l’innegabile dominio maschile.
Dumas si serve della scrittura per chiarire le sue posizioni e fornire una valida integrazione alla sua pittura: “Scrivo d’arte perchè sono credente. Credo nel potere delle parole […]. Ho visto la gloria e il potere della parola. Ho assistito al potere della ripetizione, all’intossicante eccitazione della ritmica retorica. […] Potrei non essere l’unica autorità, né la migliore, ma voglio partecipare alla scrittura della mia storia. Perché mai gli artisti dovrebbero essere legittimati da autorità esterne. Non voglio essere paternalizzata e colonizzata da ogni Tom, Dick o Harry (maschio o femmina) che incontro. […] L’arte non m’impressiona, né mi delude, perché comunque non ho mai creduto […] [in essa] nelle vesti di Grande Speranza Bianca; né ho mai visto artisti più grandi della vita” (Marlene Dumas, da Perché scrivo (d’arte), tratto da Contemporanee, di Emanuela De Cecco e Gianni Romano, Postemedia Srl, 2002).
Nella produzione di Berlinde De Bruyckere (Gent, Belgio, 1964) bellezza e profonda tristezza coesistono, effuse dalle medesime figure. Che siano umane o animali, esse trasferiscono un senso di drammaticità senza pari, di inquietudine, paura, vulnerabilità, sgomento, privazione fisica e mentale.
Le sue installazioni stimolano lo spettatore a livello sensoriale, utilizzando un canale del tutto particolare. Come non sentirsi scossi, del resto, da quelle entità solitarie e silenti, da quei corpi sofferenti e rannicchiati nel tentativo di difendersi? E’ la vista, certo, il primo senso chiamato in causa, ma anche il tatto è assai sollecitato da quelle opere fortemente materiche, carnali, dalle superfici livide.
La femme sans tête (2004, cera) raffigura una donna senza capo privata della possibilità di pensare, ma anche di comunicare attraverso il volto e parola. E’ anonima, senza un’identità precisa; un essere senza voce, insomma. Evocativa disuggestioni baconiane, sembra riportare ad una carcassa animale, dilaniata e fredda. Per l’autrice, il suo corpo sfinito, esangue, diviene metafora della sofferenza psicologica e dell’estrema difficoltà ad esternare il disagio delle donne di tutto il mondo.
Si tratta di una creatura terrifica, forse, ma che al contempo induce il pubblico a cercare di ascoltarla, comprenderla, amarla e consolarla. Quelli di De Bruyckere sono soggetti figli della nostra contemporaneità, mostri di carne e sentimento che suscitano in noi un singolare senso di protezione, come fanno – seppur utilizzando escamotage espressivi differenti – i prodigi di Patricia Piccinini.
Sebbene ad alcuni possano sembrare astratti, anche gli artefatti di Senga Nengudi (Chicago, USA, 1943) sono strettamente legati al corpo e alla fisicità. Personalità di punta del movimento afroamericano qui in Italia per la prima volta, l’autrice è stata a torto trascurata probabilmente per la deperibilità delle sue opere.
Le installazioni presenti alla Fondazione Sandretto rappresentano perfettamente la sua produzione, che spesso si avvale di numerosi elementi naturali (terra, semi) – testimonianti un legame inscindibile con la terra e le radici – combinati a materiali appartenenti alla realtà domestica e alla quotidianità femminile. In prevalenza, sono create utilizzando collant tirati oppure intrecciati, attorcigliati o ancora riempiti di sabbia. Come spiega la stessa Nengudi in catalogo, “le moderne fibre di nylon, tese fino a rompersi, annodate in forme antropomorfiche, evocano la metamorfosi del corpo umano e ricordano le trasformazioni della nostra pelle segnata dall’età ma anche dalla tensione della gravidanza o dalla violenza del parto”.
I collant, poi, oltre a costituire un componente assai versatile dal punto di vista della creazione artistica, sono pregni di una potenzialità entusiasmante giacché l’artista ritiene che possano trattenere l’energia delle persone che le hanno indossate (così com’è secondo svariate religioni animiste).
Nei lavori di Senga, infine, è ravvisabile una certa valenza rituale che riconduce ad un confortante senso di protezione. Si tratta di un significato nient’affatto secondario, che si palesa con maggiore intensità in quell’opera stupenda che pare riprodurre un grande acchiappasogni.
La donna bianca non si tocca!
Donne in viaggio o in esilio
Ove non specificato diversamente, le citazioni presenti in questo articolo sono state tratte dalla pubblicazione Non toccare la donna bianca, 2004, Hopefulmonster Editore.
L’opera German Witch di Marlene Dumas (2000), la cui immagine è stata allegata alla parte di questo servizio dedicata all’artista, non è presente in mostra.
di Sonia Gallesio