L’opera incompiuta | Sudate Carte Racconti I edizione
Dicembre 29, 2002 in Sudate Carte da Redazione
Prima che sopravvenisse la sera, il vecchio, chiuse tutte le porte, toccò con una mano il grande blocco cubico di marmo che occupava lo spazio della sua stanza e che rifletteva in modo quasi irreale la poca luce delle lampade, lasciate accese dai servi e che avrebbero consumato l’intero tempo della notte. Fece aderire alla superficie il palmo duro e le dita callose, interamente: vide il suo braccio, nella penombra, poggiato contro quella geometrica forma e la guardò con una sottile inquietudine, poiché sapeva di guardare una prigione; poi sentì il freddo che esso emanava e pensò che dentro il marmo giaceva, volta da una metamorfosi continua ed invisibile, una indefinibile massa di corpi che senza fine s’agitavano assumendo tutte le possibili forme dell’essere, tutti i possibili volti che un tempo infinito ed una creazione continuamente rinnovata avrebbero dato alle genrazioni dell’uomo; poi, ricordò che dentro ogni cosa Dio aveva inscritto l’idea più nobile tra tutte, la più perfetta, posta nei primi giorni del tempo a coronare i cerchi della terra e del cielo: l’idea dell’Uomo; e per un attimo vide una delle forme che mutavano nel marmo e decise che il lavoro delle sue mani sarebbe stato risvegliare quella forma dal sonno, creare un corpo dal blocco fissandolo in uno degli attimi della sua metamorfosi, affinché questo poi, libero dalla materia, potesse diventare uno dei simboli della sua solitudine e rappresentare agli uomini l’indecifrabilità dell’esistenza, il suo continuo sforzo verso il mutamento e verso la morte.
Con un gesto quasi meccanico afferrò lo scalpello.
Quando si volse era notte. Forse non era la stessa in cui aveva iniziato, ma non aveva importanza, se il giorno è intermittente e frenetico, la notte era invece il luogo che egli dedicava al sonno, che una delle forme della vita, e al sogno, che è una delle forme dell’arte. Si voltò e vide l’uomo, il volto appena accennato, il corpo contratto nello sforzo di abbandonare la materia, eternamente immerso nel fiume che lo rendeva indefinito: vide le sue braccia alzate ed il volto informe chinato sotto di esse: vide sé stesso in quel viso o un’ombra di sé stesso caduta dalla sua incoscienza, condannata a dibattersi nel magma del marmo e della materia per il desiderio di giungere ad una forma che avrebbero poi, con lento volgere, disfatto la realtà e il tempo; ma lui aveva voluto fermare il sentimento che lo legava al reale ed aveva ritratto un uomo che si agita nella prigione del mondo per sfuggire al ciclo infinito delle trasformazioni, poiché più reale di ogni immagine era il suo desiderio di sfuggire al nulla, e più vera di ogni forma definita era l’indefinita forma di colui che nel dolore emerge dal caos e nel dolore eternamente vi fa ritorno.
Guardava la sua incompiuta opera, e ad un tratto sentì le sue mani umide, e la fronte rugosa solcata da lenti rivoli, sentì il sudore lambirgli il corpo, le braccia, bagnargli le vesti, vibrare dentro le cavità nascoste della sua mente e ricordò quanti giorni e quante notti aveva vissuto cercando di scoprire il senso nascosto che lo animava, la frenetica volontà che formava il suo sangue, e seppe allora che come la sua opera era simbolo della sua fatica, così il sudore trasformava egli stesso in simbolo e rappresentazione della sua opera, e che egli non aveva creato che un’immagine di sé stesso, un riflesso, una sola immagine e un riflesso di uno tra gli infiniti sé che si muovevano dentro la sua anima.
di Giulio Palmieri Carlo