Malvarosa
Agosto 25, 2005 in Libri da Stefano Mola
Titolo: | Malvarosa |
Autore: | Raffaele Nigro |
Casa editrice: | Rizzoli |
Prezzo: | € 17,50 |
Pagine: | 369 |
Malvarosa inizia con un rapimento. Eustachio Petroccelli e l’amico tunisimo Majid El Houssi, impegnati in una campagna di scavi archeologici in Algeria, vengono prelevati da un gruppo di guerriglieri e rinchiusi in una prigione buia, dove resteranno per parecchio tempo. Resta loro il solo conforto del dialogo, che inizialmente si muove sul piano semi-teorico del confronto di civiltà, alla ricerca di una spiegazione per l’atto subito. Ma in seguito si trasforma in qualcosa di apparentemente molto diverso: il racconto, da parte di Eustachio, Eustà, della sua vita, del percorso che lo ha portato da Metaponto, soffocato nella frustrazione di un sud avaro di lavoro, nel cappotto della tradizione e della religione, fino a diventare archeologo. Un percorso complesso, denso, intensissimo, ricco di dolori, ma anche di passione. Una strada che muove dal rifiuto del passato e delle radici, e che lo ha portato a fare della storia più lontana la materia quotidiana della sua esistenza. Seguiremo così, passo dopo passo, le lotte, le rabbie, le strade percorse a capofitto in motocicletta, gli amori con la senegalese Soukeyna e con la torinese Mary, il confronto con il padre, mite e di sinistra, con la madre, prototipo della tradizione, con il nonno, ex-fascista. Con i bellissimi personaggi della sorella malata Cristina e dell’amico di una vita Renato. Tutto deve essere ripercorso millimetro dopo millimetro, perchè, come ice El Houssi all’inizio, se non si lascia una traccia si muote definitivamente […] non si è stati utili a niente
A me sembra che Raffaele Nigro abbia scritto un libro molto importante. È riuscito nelle non semplice impresa di coniugare romanzo a tesi con una felicità narrativa assolutamente notevole. Non bisogna asolutamente pensare che tutto si risolva in una specie di dialogo filosofico tra El Houssi e Eustà, incardinato sulle ragioni di uno scontro con cui purtroppo sembra dobbiamo fare i conti tutti i giorni, almeno a leggere le prime pagine dei giornali, quello tra l’occidente e l’islam. Perché invece abbiamo a che fare con una storia viva e ricca, permeata di passione, sapori, odori, tutti: buoni e cattivi. Nigro affonda a piene mani nella realtà, senza agiografie.
L’aspetto più importante e interessante del libro è il confronto continuo tra il protagonista e domande fondamentali per ognuno di noi: Dov’è la vita? Che cosa sono le nostre radici? Possiamo veramente capire e apprezzare quello che ci sta intorno, oppure ci riusciamo soltanto quando è troppo tardi, oppure quando ce lo fa capire qualcun altro?
Per Eustachio, la Basilicata, la campagna, la famiglia, gli elementi della tradizione, sono l’immobilià e la morte. Tutta la sua esistenza è permeata da un desiderio di fuga prevalentemente vagheggiato, mai perseguito fino in fondo, praticato soltanto in sporadici episodi (i viaggi fatti sulle navi cargo, il viaggio in america). La vita sembra sempre da un’altra parte, in America, oppure al Nord, in ambienti mitizzati e assorbiti per rappresentazione mitica. Non è un caso probabilmente che tutti i personaggi abbiano un soprannome, e che in molti casi questo soprannome sia in inglese.
Eppure, Eustà ha ricevuto in dono dalla natura un olfatto eccezionale, dote che gli permette più che a ogni altro di entrare in contatto con il passato mitico della sua terra. È proprio grazie a questo fiuto che riesce a scoprire una quantità incredibile di reperti storici sepolti. Ma in questo, consuma uno dei suoi più grandi tradimenti, diventando il più grande tombarolo di lucania e forse dell’Italia intera.
C’è sicuramente nella storia di Eustà la metafora di una condizione meridionale segnata dal bisogno disperato di lavoro: così l’acciaieria diventa al tempo stesso una benedizione e una condanna del territorio. La fuga è quindi l’unica prospettiva per la gioventù, con il conseguente abbandono delle tradizioni e delle radici. Anche se Eustà sembra congelato in una fuga interiore che non trova sbocchi in un abbandono radicale. Perpetua una sua condizione adolescenziale, di rifiuto delle scelte, e al tempo stesso vive febbrilmente, intensamente, sensualmente, con un cinismo che è vernice, sempre tormentato dalle sue domande.
La tesi del romanzo sembra dunque essere che soltanto un riappropriazione critica e dialettica delle nostre radici possa permettere una salvezza dall’accelerazione obnubilante della modernità. Un confronto ineludibile soprattutto in questa difficile contemporaneità, in cui l’occidente deve confrontarsi con un attacacmento acritico, folle e cieco alle proprie radici, quello monolitico del fondamentalismo islamico.
di Stefano Mola