Muscaria e Ginestre
Giugno 15, 2003 in Spettacoli da Redazione
Muscaria al Teatro Perempruner di Grugliasco e Ginestre a Portella alle Serre sempre di Grugliasco: Viartisti mette a segno due produzioni (la seconda insieme alla Casa delgi Alfieri) a pochi giorni di distanza una dall’altra, due intrecci, suggestioni di meraviglia e tragedia, due immersioni nel mondo spinoso e fantastico di una Sicilia dal sapore di terra e mito.
Muscaria con il suo innesto di tradizione popolare animata di personaggi e storie che pescano nella grande cultura di una regione che ha visto migliaia di anni di influenze, costruisce un fantastico ordito di divagazioni tra storia e leggenda, attingendo dal mito e dalla realtà, da “I mimi siciliani” di Francesco Lanza e “L’Opera completa” dei Fratelli Grimm. Si susseguono canti, balli, filastrocche, (eseguiti magnificamente soprattutto dalle attrici femminili Francesca Ardesi, Anna Campagna, Eloisa Perone, Raffaella Tomellini) interazioni tra personaggi delle favole, con streghe, il vecchio avaro gabbato, il gallo che non vuole cantare (interpretato da un bravissimo Antonio Villella) oppure l’asino che si beve la luna (generosa e brillante la prova di Savino Genovese). Una galleria fantastica di personaggi e vicende conchiuse in se stesse come bolle di cristallo che chiamano direttamente in causa lo spettatore per la loro irruenza e forza (Pierpaolo Congiu e Marco Mazza viaggiano spesso tra boccascena e quarta parete catturando anche solo con lo sguardo l’attenzione degli spettatori divenuti bambini), irrompendo spesso in platea come venditori o mariti cornuti o altro ancora.
Continue metamorfosi di stato, di situazione e personaggio per otto attori che restano sempre in scena e racchiudono tutto lo spazio nella loro azione, ognuno è parte integrante di un mito che torna a vivere in sala, vivificato dalla grande elasticità che questi attori dimostrano passando in un serrato ed azzecatissimo ritmo teatrale da un ruolo all’altro, da una vicenda all’altra, intrecciandole, riunendole, in gallerie animatissime di contemporaneità ed azione a tutto tondo. Una regia, quella di Pietra Nicolicchia (già allieva del grandissimo Michele Perriera) che tiene conto della condivisione e della partecipazione del pubblico ad una realtà che diviene vera solo laddove nulla è separato e vissuto in gelosa e fredda esibizione: ecco le macchiette colorate, i corpi intrecciati in coordinamento e perfetto equilibrio nel creare scenari pittorici in cui vivono le icone della tradizione culturale mitologica di una terra di cui si percepiscono con ogni senso le radici e gli ardori, i ritmi e le stagioni, cicli scanditi da una fortissima ed intima unione con la terra, e che qui si racconta con compiaciuta autorinoia e con in fondo al cuore anche una celata malinconia.
Ginestre a Portella invece è un viaggio nella storia concreta della Sicilia e non solo, nella poesia della lingua sicula grazie ai versi di Ignazio Buttitta ed alcune pagine di Pirandello e Tomasi di Lampedusa . Ginestre a Portella è il racconto di un episodio che costituisce la prima strage rimasta impunita della repubblica italiana: è il primo maggio 1947, il bandito Giuliano ed i suoi picciotti fanno fuoco sulla folla riunita a Portella per festeggiare la festa dei lavoratori, al suo secondo anno di rinascita dopo la soppressione nel periodo fascista. Solo gli esecutori materiali verranno puniti; i mandanti resteranno per sempre lontani dal giusto castigo, coperti dalle loro cariche politiche. Con questo spettacolo la compagnia Viartisti, sostanzialmente gli stessi attori di Muscaria, diretti da Luciano Nattino della Casa degli Alfieri intende raccontare i fatti tragici di Portella, continuando ad interrogare ed interrogarci sugli eventi: è una ricostruzione storica e spettacolarizzata insieme della vicenda, e questo determina una forma di narrazione in cui lo stesso regista può intervenire nel mezzo dell’azione per spiegare, interagire o rivolgersi ad un attore/personaggio.
La messa in scena gioca tutta sull’ambivalenza tra storia e cultura, tradizione e tragedia di questa storia siciliana e italiana, che porta con sé i tratti di una cultura e i suoi contrasti: gli attori sono i personaggi di un dramma storico, ma anche i simboli di una cultura siciliana e nazionale in generale, nel cui seno si agitano i gioiosi fermenti di una nuova vita democratica che vuole libertà, fratellanza e uguaglianza dopo la caduta del regime fascista, contrastati però dai freddi calcoli di una parte della classe politica ostile alle riforme e all’unità. Gli attori in scena hanno fili e trame precisi e meccanismi affiatati di interazione (Savino Genovese, Marco Mazza e Pierpaolo Congiu riescono spesso in quest’intesa immediata), in tempi serrati e naturali, giochi di ambivalenza e metafore, allegorie nei gesti e negli atti, la scenografia lascia spazio solo al corpo dell’attore e ad una decina di sedie, niente più di quanto c’è all’inizio è inserito: soltanto, gli interpreti diventano un volto e immediatamente mutano per interpretarne un altro (le bravissime Francesca Ardesi e Gloria Liberati sempre madre e figlia, ma a volte del bandito Giuliano, a volte del contadino Fifì). Ma l’impegno e la bravura degli attori sta nella loro capacità di sdoppiarsi tra la vicenda del bandito Giuliano e delle vittime di Portella, per cui l’accattivante effervescenza di Salvatore Arena interpreta sia la parte di Giuliano che di Fifì, una delle vittime della strage, mentre il divertentissimo Antonio Villella è sia il genero di Giuliano che il fidato asino dello stesso Fifì, che morirà insieme al padrone in quel maledetto giorno. In questo modo, si creano intersezioni di sdoppiamento (per esempio la coppia Salvatore Arena/ Antonio Villella e Gloria Liberati/Francesca Ardesi) in cui i banditi sono le vittime e viceversa. Il regista, Luciano Nattino, compie in questo modo una geniale operazione allegorica di forte impatto sdoppiando le interpretazioni e rendendole conflittuali: il bandito Giuliano uccidendo i suoi conterranei, sacrificando per un finto ideale i suoi fratelli ha in realtà ucciso sé stesso. E’ tutto alla fine è un teatro (uno spettacolo nello spettacolo) in cui si giocano le sorti degli ignari cittadini, come lo scemo del villaggio, che vende la propria coscienza per il potere affidatogli dalla politica. Una messa in scena forte e precisa, netta e senza sbavature né divagazioni, tutto è al minimo necessario e diretto, spontaneo e chiaro, senza bisogno di alcun effetto tranne quello del teatro come impegno civile che può dire anche solo sdoppiando le interpretazioni dell’assassino e della sua vittima, il carnefice che vede il suo riflesso nel corpo scannato che gli sta di fronte: e si riconosce.
di Alan Vai