Nemmeno il destino
Novembre 7, 2004 in Cinema da Redazione
Titolo: | Nemmeno il destino |
Regia: | Daniele Gaglianone |
Con: | Mauro Cordella, Fabrizio Nicastro, Giuseppe Sanna, Lalli, Gino Lana, Stefano Cassetti |
Girato: | Italia 2004 |
“Nemmeno il destino” è il ritratto di un mondo urbano in bilico tra passato operaio e non meglio identificate prospettive di rilancio economico e occupazionale ma è soprattutto una storia sull’amicizia e sull’amore scritta e recitata con secchezza e umanità che nulla lasciano alla retorica.
Si parla di legami che nessuno, nemmeno il destino potrà cancellare, di amori che “si illiminano di eternità” come nel brano di Betty Curtis che Lalli canta in una scena del film e che ne è il leitmotiv musicale.
Ci sono insomma sentimenti che si ribellano alla caducità delle cose. Viene da pensare alla scena finale di “Le conseguenze dell’amore” e alle frase di Titta Di Girolamo:“Quando si è amici lo si è per sempre”.
Toni (Giuseppe Sanna), Ferdi (Fabrizio Nicastro), Alessandro (Mauro Cordella) hanno nella propria grande amicizia il loro unico baluardo contro la durezza della vita.
Non ci sono professori “amici” né angeli custodi nell’ultimo film di Daniele Gaglianone, non c’è la soluzione imprevista “e vissero tutti felici e contenti”.
Tre ragazzi cercano la felicità senza una lira, con vestiti fuori moda, mangiando scatolette, rassegnandosi a non andare al cinema e a non studiare.
Se anche avessero i soldi però non andrebbero “in giro con la tipa” per farsi vedere, investirebbero meglio il proprio capitale!!
Ogni personaggio vive il proprio demone personale, che siano la sconfitta, la malattia e l’alcool per il padre di Ferdi (Gino Lana), il ricordo delle costrizioni e dei soprusi per la madre di Alessandro (Lalli), l’incapacità di perdonare ai propri genitori di non essere invincibili, oppure il senso di colpa per non riuscire a dimostrare il proprio amore per loro.
Gli adulti affrontano le delusioni piegandosi sotto i colpi del destino ma rappresentano anche un punto di riferimento, un focolare domestico che, fuori da pii e affettati ritratti familiari con cui questo film non ha nulla a che spartire, offrono momenti di felicità e di pienezza, come nella scena della “pasta alle vongole”.
Cose semplici come un piatto di spaghetti, piante cresciute bene, gli scherzi di due amici alle prese con un sugo di pomodoro, danno il senso di una possibile riconciliazione con la vita.
Pur squattrinati, o forse anche per questo, i tre eroi tragici di questo film hanno spirito e consapevolezza che altri coetanei nel film ignorano.
Il monologo di Ferdi che schernisce il padre rimproverandolo per non aver combattuto contro i proprietari della fabbrica, responsabili della morte di tutti gli altri operai, è il paradigma del desiderio di ribellione dei ragazzi contro una realtà che schiaccia i più deboli e contro un modello paterno non condiviso.
Alessandro rappresenta per sua madre “passato e avvenire”, alfa e omega di tutto il suo mondo, grossa responsabilità per un ragazzo solo, ufficialmente senza padre.
Una sera scoprirà le ragioni del dolore di Adele e si renderà conto di tutte le sofferenze patite dalla madre, tra l’istituto gestito dalle suore dove ha vissuto e lavorato e la dipendenza economica da un uomo senza volto, non degno di comparire nella storia.
La struttura di accoglienza dove Alessandro approda dopo il suo gesto di rivolta è gestita da un giovane educatore dai modi spicci che ricorda fisicamente Ferdi e, come lui, possiede un vetusto motorino di cui si occupa amorevolmente.
La difficoltà di strappare finanziamenti ad enti locali poco inclini ad occuparsi davvero di questioni socialmente spinose e di scarso “ritorno d’immagine”, le zuffe tra i ragazzi e i quotidiani imprevisti non vanificano la nuova solidarietà che si stabilisce nel gruppo, la bellezza e la serenità riconquistata grazie ad una gita in montagna.
L’atmosfera del film è tutt’altro che lugubre o soffocante.
L’amicizia dei tre ragazzi è scandita da scherzi, bagni nel fiume, fughe in motorino a ritmo di ska, bevute a cavalcioni di alberi raminghi, vittoriosi su un paesaggio tutto fabbriche abbandonate, voragini-cantiere e palazzi non ancora finiti o in via di demolizione.
Se non fosse per Toni che dice di non poterne più di trovarsi sempre nella stessa città, con l’unico orizzonte della fabbrica di fronte a sé (in senso figurato e letterale), non si potrebbe capire che il grande set in cui il film si svolge è Torino.
Non ci sono tracce della Mole, non c’è il centro storico, non ci sono il Po né la collina verde che ora fanno bella mostra di sé nei filmati promozionali delle prossime olimpiadi e che rischiano di oscurare l’altro lato della città.
di Elena Bottari