Obiettivi quasi sbagliati
Marzo 17, 2008 in Libri da Stefania Martini
Titolo: | Obiettivi quasi sbagliati |
Autore: | Roberto Arditti |
Casa editrice: | Sperling & Kupfer |
Prezzo: | € 14 |
Pagine: | 255 |
E’ stato presentato al Circolo dei Lettori, questo primo libro di Roberto Arditti, giornalista, direttore del quotidiano Il Tempo e autore televisivo.
Attraverso le pagine di Obiettivi quasi sbagliati Arditti ha voluto dare voce a coloro che sono rimasti in disparte in tutti questi anni, a chi si è tenuto un passo indietro.
E, purtroppo, sono tanti nel nostro Paese: genitori consumati dal dolore, mogli diventate vedove, figli divenuti orfani, familiari ed amici di chi è stato ucciso negli anni Settanta ed Ottanta perché faceva il proprio lavoro, per un tragico scambio di persona o perché “si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, sulla traiettoria di un proiettile vagante, in viaggio su un vagone del treno rapido 904 saltato in aria nel 1984, alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 o a passare in una piazza luogo dell’esplosione di una bomba, come successo in Piazza Fontana a Milano, nel dicembre 1969, o in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974.
Come Arditti ha più volte sottolineato nel corso della presentazione, il libro non vuole dispensare pietà e malinconie, non vuole dare spiegazioni sul fenomeno del terrorismo, non teorizza del perché e del percome, non fa distinzione tra terrorismo di sinistra e terrorismo di destra.
Semplicemente, vuole salvare una memoria, una memoria che è prima di tutto vicenda umana, delle vittime dirette e delle vittime indirette di quei tragici episodi.
Noi abbiamo il dovere di ricordare i fatti, di come questi fatti si svolsero. Perché quelle furono vicende reali, che hanno interessato, modificato, stravolto, migliaia di vite. Noi abbiamo il dovere di ricordare, sperando che ciò serva affinché tali eventi non si ripetano più.
A parlare di quei fatti, a testimoniare la sua esperienza dolorosamente vissuta sulla propria pelle, c’era Sergio Palmieri, ex-funzionario Fiat, gambizzato nel 1979 dalle Brigate Rosse, che gli spararono mentre stava andando a lavorare.
Quest’uomo ormai sulla settantina, la sua figura distinta appoggiata a quello che da 29 anni costituisce il suo fido compagno di vita, quel bastone che sostiene la sua camminata, non potevano non lasciare un segno tra l’uditorio attento.
E ancora di più le sue parole, pacate ma decise; serene ma piene di tutta la sofferenza che ha dovuto vivere quest’uomo, sofferenza fisica e psicologica che non l’ha più abbandonato da quel maledetto giorno, sono arrivate dritte alle orecchie, ma soprattutto al cuore.
Un’analisi spietata, una consapevolezza certamente maturata a lungo, attraverso le migliaia di volte in cui si è chiesto “perché io?” ne hanno fatto il protagonista della serata.
E il perché l’ha spiegato Palmieri stesso.
Il clima di caccia a tutti coloro che, all’interno della fabbrica, avevano un qualche ruolo di coordinamento, che si era instaurato a partire dal ’78 negli stabilimenti di Mirafiori, era sfociato in una serie di pesanti intimidazioni e azioni, via via sempre più violente da parte degli operai, che agivano guidati dal pensiero “Spariamo a Tizio … Ne colpiamo uno per educarne 100”.
Cortei spontanei nascevano a macchia di leopardo e a farne le spese erano i capi-squadra, i funzionari: con lunghe funi venivano legati, vestiti di rosso e trascinati per lo stabilimento. Oppure messi nei bidoni della spazzatura.
Il mio ruolo, all’epoca, era quello di coordinare l’inserimento di un consistente gruppo di persone disabili ed invalidi, che avevano difficoltà a svolgere i normali compiti che spettano ad un operaio in catena di montaggio. Gente che non poteva essere assegnata a lavori faticosi, che non poteva fare i turni … Con il professor Vis, analizzavamo tutti i posti di lavori che potevano accogliere i diversamente abili.
Un giorno, una di queste persone che avevo convocato nel mio ufficio per discutere quale potesse essere la sua collocazione, stette male. Dovemmo chiamare l’infermeria e fu portato fuori dall’ufficio in barella. Questo bastò a scatenare l’odio dei colleghi politicizzati. Da quel momento si disse che nel mio ufficio avvenivano chissà quali cose turpi, se la gente ne usciva ridotta alla barella.
E, inconsapevolmente, divenni un obiettivo, un “servitore dello Stato”, di quello stato di cose che si voleva cambiare. Ma probabilmente venni scelto anche per vendetta personale, perchè sì, uno dei componenti della direzione strategica delle Brigate Rosse era un mio collega, il vicino di scrivania, un sindacalista che nessuno di noi aveva mai sospettato potesse essere un capo terrorista. Quel Betassa che, con la parrucca in testa, in permesso sindacale, dà il colpo di grazia a Casalegno (Carlo Casalegno, vice-direttore de “La Stampa” fu ucciso da un commando delle Brigate Rosse a Torino il 16 novembre 1977 n.d.r.)
Palmieri si riferisce a Lorenzo Betassa, operaio a Mirafiori Carrozzeria, sindacalista, ucciso dai carabinieri durante il blitz nel covo di Via Fracchia, a Genova, nel maggio 1980 con altri tre componenti della colonna genovese delle BR.
Quando la vita ti cambia da così a così, c’è uno smarrimento assoluto. Dopo tre anni dal giorno del mio ferimento, ero ancora a casa, in preda ad una profonda depressione. E anche alla paura, quella paura che non passava mai. Ero stato pedinato, le mie abitudini spiate e studiate per giorni da una rete di persone insospettabili, e io non mi ero accorto di nulla. E se il ferimento fosse stato uno sbaglio? E se qualcuno fosse tornat
o per finire in modo definitivo il “lavoro”?.
Oggi, dopo 29 anni di sofferenze e difficoltà, di operazioni ripetute, di visite mediche, di ingressi e uscite dall’ospedale, ringrazio Arditti, che in dieci intense pagine ha condensato tutta la mia vicenda.
Nel corso della presentazione è intervenuto Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, città ripetutamente colpita negli anni di piombo: esponenti delle forze dell’ordine, guardie carcerarie, magistrati, giornalisti, dirigenti Fiat furono le vittime dei gruppi di fuoco terroristici.
La riflessione del sindaco, nata dalla sua esperienza all’interno dell’organizzazione sindacale proprio in quegli anni, è stata incentrata su un punto fondamentale: se non vogliamo che l’esperienza della lotta armata si ripeta, occorre capire quale fu il terreno in cui il seme della violenza trovò nutrimento per attecchire e crescere. Perché questa gente si è mossa così?
La chiave di lettura che Chiamparino ha offerto agli ascoltatori sta, a suo avviso, in un’errata interpretazione del potere della politica, nelle seduzioni che essa crea e nelle illusioni che non è in grado di concretizzare.
Il passaggio dalla politica alla violenza verbale, che diventa poi anche violenza fisica, giungendo alle estreme conseguenze dell’omicidio sta nel “totalitarismo” della politica stessa. Bisogna togliersi dalla testa che la politica è totalizzante, organicistica. Occorre fare attenzione ai messaggi politici che ognuno di noi può dare, poiché dalla loro interpretazione distorta può insinuarsi il germe della violenza.
Occorre mettere dei paletti ben chiari: la politica non può risolvere il problema dell’uomo sulla terra, non può creare il “nuovo mondo”. Chi è diverso da te ha comunque i tuoi stessi diritti e la tua stessa dignità, non può essere assimilato ad un nemico da eliminare.
Anche se il mondo del lavoro è molto cambiato rispetto a trent’anni fa, ancora oggi, in molte realtà lavorative ci sono situazioni potenzialmente esplosive, e lo dimostra il fatto che tra gli ultimi arrestati per associazione a gruppi terroristici ci siano stati, di nuovo, esponenti del sindacato.
di Stefania Martini