Orfeo ed Euridice
Novembre 4, 2001 in Racconti da Redazione
Una sottile linea di freddo e solitudine saliva lungo il braccio rilasciato oltre la poltrona; una linea che gelava i lineamenti di Orfeo in uno sguardo che vedeva molto oltre il pavimento. La mano su cui poggiava il mento creava un’espressione indefinibile di lontananza e rassegnazione, come d’un corpo vivo senza più anima. Tutta la penombra della stanza era raccolta attorno a lui e a tratti sembrava vorticare quasi immobile come una cappa di fumo. Nelle sue orecchie, parole di lei turbinavano senza fine, senza tregua, senza che lui potesse fermarle.
A poco a poco, sul viso di Orfeo la rassegnazione sciolse la sua forma di onice e si riversò in un pianto lento come se uscisse dal fondo oscuro del cuore, come se il dolore scoprisse di soffrire solo a mano a mano che fluiva; il lamento fu prima un gemito e poi un pianto soffocato finché non esplose nella sua rabbia ferita. Le mani strinsero i braccioli, come naufraghe che trovano un appiglio per non affondare nel mare delle lacrime.
Orfeo gridò tutto il suo cuore straziato in una estrema negazione: “No! Non è giusto! Non è giusto!”. Nelle mani si ritrovò l’anello di oro liscio e puro che aveva significato la sua vita quando l’aveva scambiato con quello, gemello, della sua sposa Euridice. Davanti ai suoi occhi come un lampo terribile sfrecciarono gli occhi dell’ultimo suo sguardo, prima che le palpebre cadessero come una lapide.
“Perché ora, perché proprio ora che eravamo uniti del tutto, ora che avremmo potuto costruire la nostra vita?”.
“Perché per ogni cosa c’è un tempo ed un tempo per ogni cosa”, rispose una voce che veniva da un movimento dietro la poltrona. Orfeo si voltò di scatto ma non vide nessuno. Guardandosi intorno, parve ricordare improvvisamente la sua rabbia: “Non è vero, non era il tempo di questo dolore, era il tempo della felicità. Avevamo atteso tanto, fremendo ogni giorno”, gridò stridulo.
“Era nell’ordine delle cose che succedesse ora, Orfeo, non poteva essere che così”, rispose calma la voce dell’Altra Persona, nuovamente alle spalle di Orfeo.
“Quale ordine delle cose? Vuoi farmi credere che le cose accadono perché devono? Che tutto sia scritto e già progettato?”.
La tenda presso la finestra frusciò: “Non è così; le cose accadono perché accadono; ma ciò che non capisci è che l’accaduto è compiuto e non si può cambiare”.
Orfeo scattò in piedi: “Ma lei non doveva morire, non ora, non in quel modo. Ogni volta che mi sveglio, il dolore di non trovarla mi uccide”.
“Orfeo, lei è morta e tu non puoi fare altro”, mormorò fioca la voce.
La voce di Orfeo si fece d’un tratto solida e determinata: “Posso portarla indietro, posso convincerti che l’amavo davvero e che lei deve vivere, qui con me”.
Un lungo istante di silenzio vibrò nella stanza e ad Orfeo sembrò che una sedia si spostasse come per assestarsi sotto il peso di una persona; “Quando la vidi per la prima volta, ricordo che fu come se qualcuno con un cenno avesse fatto tacere tutto quanto intorno a lei: non più suoni, né luci, né movimenti. Solo lei, fissa in un istante di marmo. Avrei potuto rimanere finché ci fosse stata luce ed oltre a guardare quei due occhi, quei due attimi di tramonto. Non ebbi il coraggio di fermarla, di parlarle, di chiederle il suo nome. Pensa cosa avrei detto se io, Orfeo, avessi scoperto in quel momento che lei si chiama… si chiamava Euridice”; il volto di Orfeo, per un attimo illuminato dai riflessi del ricordo, si scurì.
Poi, caparbio riprese: “La incontrai ancora in un parco, seduta su una panchina; leggeva un libro di miti greci e in una mano teneva semi per i piccioni: tutta immersa nella lettura, lasciava che ogni tanto uno sguardo le sfuggisse verso gli uccelli sulla sua mano; quasi di nascosto, il suo viso sorrideva con la bocca di una bambina stupita, poi subito tornava concentrato sul libro. Mi sedetti accanto a lei, quasi prima di accorgermene, e la subissai di quegli sguardi falsamente casuali che non ingannano nessuno. Dal mio volto non traspariva nessuno dei cento approcci che mentalmente mi figuravo fallire; finché lei mi guardò fisso negli occhi: non mi aveva mai visto ma fu come se mi riconoscesse e mi invitasse nella sua vita”. Ancora i suoi ultimi occhi gli tornarono in mente, meno terribili, più soli. I suoi lineamenti cominciarono a deformarsi nel pianto.
La sedia dell’Altra Persona cigolò lievemente: “Non ti fermare ora; dimmi, cosa amavi di lei?”, disse con voce calma. Orfeo respirò a fondo e, per un attimo, lasciò che la dolce onda della memoria donasse nuova brillantezza ai ricordi offuscati dal dolore. “Lei era bellissima, la più bella di tutte, era perfetta e…”, Orfeo esitò, spezzando l’esuberanza che lo aveva trascinato di colpo; “Lei era bella, non come le fredde statue dei maestri classici né impersonale come le modelle degli stilisti; lei era bella perché era viva come nessun’altra, amava essere qui e ora, quasi fosse stata una creatura di Orazio. Non aveva quel fisico perfetto che si può comprare in una clinica, ma aveva energia che le faceva brillare la pelle liscia, aveva un candore che la profumava come un fiore semplice, aveva l’istinto di tutti i gatti del mondo che la facevano aggraziata, come una danzatrice naturale. E i suoi abbracci mi comunicavano la sua stessa vita, come i suoi occhi, nei quali mi perdevo”.
Ancora i suoi occhi, il suo sguardo sgomento prima di cadere morta. Orfeo strinse la bocca in una fessura e riprese a parlare: “Una volta mi disse che finché io sarei vissuto lei non avrebbe potuto morire, perché nulla l’avrebbe potuta allontanare da me”. Orfeo ristette un attimo, come in attesa che il dolore lo assalisse. Invece, nei suoi occhi si disegnò di nuovo l’ultimo sguardo di Euridice. Non c’era sgomento, né paura in quell’espressione; solo amore ed apprensione, lo sguardo di un amante che comprende all’improvviso di dover abbandonare il suo amato, uno sguardo che gridava l’amore, non per rabbia ma perché fosse più vero. Orfeo sentì un respiro leggero alle sue spalle; poi riprese a parlare: “Il suo ultimo sguardo mi ha sempre ossessionato; il dolore, il mio immenso dolore lo aveva deformato in uno spasmo orrendo. Ho passato notti intere davanti a quello sguardo, sia che fossi sveglio, sia che non lo fossi e non l’avevo mai capito. Forse perché nel suo sguardo non avevo letto mai, in tutta la sua vita con me, qualcosa che fosse un sussurro di angoscia o una vena di delusione. Forse perché non aveva mai creduto davvero alla morte; ed io con lei. Sai, ora soltanto mi accorgo che lei mi manca davvero. Ho sofferto come un bambino cui un uomo grande e grosso ruba il pupazzo preferito: con rabbia impotente. Ho gridato che non era giusto, ho urlato il mio amore, quasi come avessi dovuto convincere qualcuno del mio sentimento. Ma solo ora sento veramente la sua mancanza”. Orfeo rimase in silenzio e cominciò a piangere piano, quasi un pianto intimo, solo per lui ed Euridice.
Passi leggeri risuonarono avanti e indietro oltre lo schienale della poltrona e Orfeo colse qualcosa con la coda dell’occhio. Poi l’Altra Persona parlò: “Orfeo, mi hai convinto del tuo amore e credo che tu meriti che Euridice torni con te. Solo, sappi che la perderai appena ti volterai a guardarla”. Orfeo sgranò gli occhi e le lacrime si ghiacciarono, serrò le mani sui braccioli come se si preparasse a balzare.
Sentì sulla spalla il lieve frusciare di una carezza femminile: “Sono tornata da te, amore mio, e grazie al tuo amore”. Orfeo tremò e sentì le gambe cedergli. A piccoli passi, senza muovere gli occhi, mosse la mano verso quella di Euridice, fin quasi a sfiorarla; poi, d’un tratto, fu investito da un senso di angoscia indefinita: esitò.
Euridice sussurrò: “Cosa ti succede, amore; sono qui, non mi sentì?”, e gli strinse la spalla. Orfeo smise di respirare: cosa attendeva?, aveva a disposizione una possibilità che nessuno aveva mai sperato di avere, poteva tornare con lei. Poi capì. I suoi lineamenti si distesero e la mano gli ricadde in grembo. Riprese a respirare lentamente; dentro di lui, il
suo amore esultava più forte che mai e sapeva che se lui l’avesse accettata ora, non al suo fianco, bensì alle sue spalle, la presenza di Euridice avrebbe corrotto quell’amore, che mai aveva sentito così limpido, in un’ossessione angosciosa, una parvenza di vita, una falsa morte, una sospensione terribile ed insostenibile.
Orfeo si alzò, lentamente come in un vecchio film, e si voltò: davanti a lui vide lei; si rese conto che ne aveva dimenticato il volto ed il vero colore dei capelli e l’espressione di bambina e la piccola fossetta sul mento e le ginocchia un po’ rientranti che lui avrebbe guardato per ore. In una lunghissima, infinita scheggia di tempo, ricavata solo per loro due, la fissò negli occhi sorridenti e le disse mille volte ti amo senza aprire mai la bocca; le giurò di tenerla sempre con sé e sapeva che non c’era bisogno di giurarlo. Strinse a sé con ogni sua fibra quello sguardo che nessuna parola poteva dire e seppe, sicuro come mai, che lei lo amava e aveva sperato che non la riportasse in vita; seppe che lei lo avrebbe amato come si amano da millenni il sole e la luna, senza mai sfiorarsi.
Il buio tornò in un lampo cieco e l’unico rumore era quello dei secondi che scorrevano attraverso un vecchio orologio. Orfeo rise e pianse ed ancora rise e vide le risa di Euridice, più squillanti che mai, in fondo al suo cuore. Gli tornarono in mente le parole di lei: “Finché tu vivrai io non potrò morire, perché nulla mi può allontanare da te”. Rimase seduto alla poltrona e dopo tanti mesi il sonno si insinuò sotto le sue palpebre. Con l’ultimo bagliore di coscienza sentì dei passi fruscianti uscire dalla stanza attraverso la porta aperta. Nel cuore mormorò un flebile grazie.
di Vincenzo Sannino