Palladentro

Luglio 5, 2006 in Racconti da Simona Margarino

Palla Sul legno del pavimento scheggiato di neve rotolò la palla.

Era di marmo rosa, quella palla.

E dentro c’era un uomo, Timor.

Il gioco era iniziato 3 anni, 11 mesi, 2 giorni, 5 ouverture e 4000 bombe prima, in un’alba sospesa tra la pelle di cartavetro della signora Essenia e il mignolo sinistro di suo marito, stretto in un anello di rame. Di quelli per curare l’artrite e qualche altra fissazione. Quella volta un aereo stava sorvolando il primo mattino, in un tuono, allorché Timor, seduto davanti al portone di casa, aveva ficcato per sbaglio un’unghia dentro la sfera per poi lasciarla scivolare sul ventre del suo violino, senza pensare, a grattugiare via un’aria grassa di prosa e, a esser onesti, una gran bella stonatura. L’intonaco si era tinto di vermiglio e gli amici avevano riso da squassarsi le viscere:

– Suona Timor, facci sentire ‘sta canzone delle balle…

E lui, dimenticandosi di quel capriccioso bigliardo della guerra, aveva suonato.

Nell’attimo stesso in cui la stecca s’era mossa, tra le corde tirate, il sole s’affacciò a illuminare una nota rotonda che si staccò dall’archetto e prese a correre per la campagna di panno verde, all’impazzata, un birillo lanciato a seguire la mano di un uomo balzato di botto in groppa a un asino magro per fare un concerto mai pensato così. Timor galoppava il ciuco, con la chioma arricciata al vento, chinando a tratti il busto e svolazzando il dito impigliato dentro la palla a colpire petali, manubri di biciclette, lampadari spenti, rododendri, croci e case, e ogni cosa sfiorata diventava un tintinnio diverso,

il fa-la-mi di un camioncino scarcassato, il si sudato di uno straccio sbattuto lontano da tacchetti allenati, due sol sul calcio di un fucile per perdere, il re minore di campi di grano pestato, tre do accovacciati sul pietrisco del fiume da cui era appena passato il nemico.

L’orchestra di un unico, comico strumento, che si dannava per raccontare qualcosa e scordare qualcos’altro. La poca gente nei villaggi lo aspettava in cortile, accanto alla cassetta della posta, per fargli vibrare l’ultima lettera dal fronte, una forchetta con cui un giorno riavrebbero inforcato salame di cinghiale, il dente di una ruota del carretto, o le orecchie di Gilberto il coniglio, a seconda dei gusti.

Mentre i giornali si contendevano la prima pagina, i notiziari esplodevano e il mondo non cessava di vendicarsi, il secondo anno Timor spinse le dita più a fondo e tutto il pugno era ormai dentro quel globo color carne. Ora poteva

suonare con vigore, piegando il polso e premendo il palmo, mentre Essenia guardava le cipolle arrostire sulla stufa, il suo uomo e poi alzava il mento in cielo. Le ci vollero gli occhi di tutto il paese per vedere la mano di Timor

che tamburellava sui mattoni dei muri, il sangue sulle foglie e infine la sua sottoveste, frusciando. Fu alla fine l’autunno del marmo sullo stomaco a entrarle nell’orecchio, in una sera di letto.

Intanto la palla cresceva giorno dopo giorno e avanzava a coprire tutto il gomito, l’altro braccio, le spalle, la testa, la pancia polputa, giù fino alle calze, in un respiro piatto, al sapore di piedi e calcare. Quando neanche più un’oncia di Timor ne restò fuori, ad eccezione del buco di lana sotto il tallone, iniziò a rimpicciolire sempre più, pure la faccia dell’uomo dietro la lastra si sgonfiava, in guance smunte di delusione, quasi fosse a un funerale, e da tutte le parti non si aspettava più ormai, si rientrava in cucina, a far i conti dei morti, erano in tanti a non trovarsi più.

Il 1 giugno rotolò con fatica sul parquet, la pallina minuscola, sepolta da un mantello di neve e un’ombra inzuppata. Da tempo Timor stava sognando un’altra musica, sbattendo violenta contro spigoli e dubbi: quella che aveva

suonato era la più rumorosa di tutte, e non bastava. Girava intorno a un’infelicità senza sorriso.

Fu nell’attimo in cui la radio sul lavabo riprese a trasmettere canzoni e lui scorse il guanto di gomma della moglie su un piatto che forse non sarebbe caduto, che capì. Balzò sulle ginocchia di Essenia, a crocchiarle le giunture,

risalì sul suo petto molle navigando tra le rughe stracche, solleticò il collo, la peluria del naso e le entrò in bocca. La donna si gustò il marito sotto i baffi finché, deglutendo forte, in un sol colpo lo buttò giù per la gola, come una pastiglia di menta, spingendolo fino al cuore. Allora diventò indimenticabile, quella musica di promesse. Solo allora.

– Non manca più nulla, Timor, e adesso non smettere con questa palla delle balle, Timor, continua, su, continua.

(Il racconto ha preso parte alle selezioni del concorso UNA PALLA DI RACCONTO organizzato da Radio2 Catersport e Scuola Holden)

di Simona Margarino