Pearl Jam in “Pearl Jam”
Maggio 4, 2006 in Musica da Gino Steiner Strippoli
“Impegno politico e energia sempre vivi”, difficile trovare una definizione migliore per il ritorno della band americana.
Un ritorno, dopo quattro anni, alle radici del ‘grunge’ più energico. “Pearl Jam” (Sony Bmg) è il titolo dell’ultimo album dell’omonima band americana, capeggiata da quel talento assoluto che risponde al nome di Eddie Vedder, vero erede di chi il ‘grunge’ lo fece nascere decenni prima, un certo Neil Young, ma anche dall’esplosività che ricorda il miglior Pete Townshend degli Who.
Con “Pearl Jam” la band si è ‘ritrovata’, nel vero senso della parola: più prepotente e arrabbiata che mai. In queste 13 tracce c’è una totale energia musicale, sonorità eleganti ma mai dome, piene di quella ‘cattiveria’ rock che ha reso il gruppo di Seattle come uno dei più famosi e acclamati al mondo. D’altronde, cifre alla mano, Vedder, Ament, Gossard, McCready e Cameron hanno venduto oltre 60 milioni di album senza contare che hanno fatto incetta di premi e riconoscimenti, come MTV Awards, Grammy, American Music Award etc. Dopo molti anni ci si aspettava un grande album: e “Pearl Jam” lo è.
Non che gli ultimi fossero poco belli. Tutt’altro. Ma sembravano vivere una ‘stanca’ di successi, mancavano di quella brillantezza che ha sempre contraddistinto la band e che i fan hanno sempre apprezzato.
“Pearl Jam”, uscito pochi giorni fa, è un album da “decollo”. Una prova discografica ricca di motivazioni dove la vena poetica di Vedder ben si inserisce nei suoni spesso duri e intraprendenti. Canzoni che parlano di guerra e di Iraq, di conflitti di religione, di Dio. C’è la presa di posizione contro il Governo Bush (alle ultime presidenziali i nostri hanno appoggiato il candidato indipendente Nadar) e si canta del sogno americano svanito, della drammatica realtà dei cittadini americani alle prese con una disoccupazione selvaggia e la povertà che aumenta nel Paese. Una presa di posizione racchiusa tutta in una dichiarazione di Steve Gossard: “la disillusione che si prova a essere considerati degli stupidi dal resto del mondo a causa del presidente Bush”.
Adesso i Pearl Jam saranno in un tour mondiale che toccherà anche l’Italia a Settembre prossimo: il 6 a Bologna, il 16 a Verona, il 17 a Milano, il 19 a Torino (PalaIsozaki) e il 20 a Pistoia. Un‘occasione per sentire dal vivo l’energia contenuta in “Pearl Jam”. Un album diretto, fresco ed essenziale. A livello musicale il suono del binomio chitarristico Gossard – McCredy risplende in tutta la sua irruenza, tra distorsioni e riff molto hard, mentre il raccordo sapiente e autorevole di Matt Cameron, alla batteria, e di Jeff Ament, al basso, suonano da cornice potente per la voce di Eddie. Già, Eddie Vedder, unico e bravissimo, sia quando deve tenere le tonalità basse, sia quando deve far esplodere le tonsille con il suo canto in rock!
L’album ha una partenza a razzo quando esplodono le note di “Life Wasted”, un grande rock dove la voce di Eddie si erge in tutta la sua bellezza poetica, ma anche dura e incisiva. Sembra subito di essere tornati indietro di 15 anni per quanto riguarda la freschezza sonora. Il ritmo è indiavolato con le chitarre limpide a suonare assoli magici. Un vero blues in hard rock. “World Wide Suicide” è introdotta dall’assolo di batteria di Cameron fin quando la voce di Vedder insieme alle chitarre di Gossard e McCready si inseriscono elegantemente verso un ritmo serrato, soprattutto quando incalza il ritornello: “ …the world… world over it’s a worldwide suicide…”. I riff di guitars sono imperiosi e incontenibili. L’energia si trasmette di brano in brano arriva anche un punk ‘n’ roll, si intitola “Comatose”. Per un attimo Vedder e company sembrano trasferirsi nelle ritmiche e nelle atmosfere di fine anni ’70 (quella dei Ramones, dei Pistols, dei Damned…) con chitarre spiegate in riff velocissimi.
“Severed Hand” è un brano rock quanto basta, scritta dal solo Vedder, sino a trasformarsi in una ballad che ha nel finale il virtuosismo spettacolare dei chitarristi. I Pearl Jam non conoscono pause e lo dimostrano con la successiva “Marker in the Sand”, un hard blues che nel canto di Eddie, richiama a tratti alla memoria lo stile del miglior Plant dello Zeppelin… “There is a sickness… like watching freedom… and the solution? But the delusion…”. Si arriva quindi a “Parachutes”, una bellissima ballad beatlesiana, con le musiche scritte da Gossard. Dolcezza sonora che “tranquilizza” per un attimo in un suono romantico il fin qui album. Ma appunto è solo un attimo, perché il guizzo delle chitarre ri-esplode in tutta la sua maestosità in “Unemployable”, con un coro Pearl Jam molto raffinato quanto virile. Poi Eddie si rimette in carreggiata di puro grunge quando intona “Big Wave”, cantando a pieni polmoni, il suo è un canto rabbioso. Una canzone che riabbraccia i vecchi aficionados della band, con autentiche progressioni rock.
Gone” è il brano che Eddie ha dedicato al suo amico Townshend (Who), una canzone poetica di una bellezza unica ed elegante, dove la voce del “nostro” accarezza le parole facendole scivolare sulle note musicali. I brani di “Pearl Jam”sono davvero straordinari, sia come musiche che come testi, anche se una delle canzoni che a mio avviso si erge più delle altre è “Army Reserve” con una intro molto armonioso, mentre Vedder canta la sua rabbia: “…I’m not frantic… I can’t feel it coming violently shaker my body…”, sino al gran finale strumentale dettato dai soliti guitars-man. Un velo di tristezza musicale traspare in “Come back”, dove un’atmosfera pensierosa e delicata ti fa alzare gli occhi al cielo aperto in una magica notte stellata: “…it’s okay it’s okay I’ll be here come back come back…”.
L’album si conclude come non meglio si poteva sperare, infatti i 5 rockers di Seattle ci regalano una gemma sonora lunga oltre 7 minuti. Con arie di adagio, quasi psichedeliche, che poi si tramutano in cavalcate a “corde-hard” che tengono in groppa la bella progressione vocale di Vedder, sino a ritornare verso un finale lentissimo e inimmaginabile.
di Gino Steiner Strippoli