Recensendo Aci, Galatea e Polifemo
Giugno 17, 2009 in Spettacoli da Stefano Mola
Diciamolo subito: Aci, Galatea e Polifemo, ora messo in dal Regio scena al Teatro Carignano, è bellissimo. Dimostra che l’opera barocca si può fare, e che se c’è una regia intelligente e originale, con quell’originalità che non vuole strafare ma che è capace di mettersi al servizio della materia musicale e narrativa, anche un testo assai povero di azione drammatica può incollare i sensi alla scena.
Penso che questo testo (e anche l’allestimento, come vedremo poi) sia giocato sulla distanza. Prima di tutto partiamo dalla musica. Händel, per l’epoca in cui vive, non si può permettere il caos. Non è Mahler, che vive in un mondo a due passi dalla dissoluzione di tutte le certezze. Per Händel ci sono ancora i re, che ancora discendono dall’ordine verticale del divino. Non che manchino le guerre, non si tratta certo di un’età dell’oro. In un certo senso però fa appello a una immutabilità, mantenendo un riferimento alla classicità: lì stanno i valori. È implicita una distanza: l’età dell’oro, fondativi, è stata: forse non tornerà. Ma essendo tuttora fondativa, non può essere rinnegata; al massimo ci si può permettere la malinconia, che è per l’appunto il colore della dislocazione, fisica e/o temporale.
Al tempo stesso la distanza è il tessuto del discorso amoroso. Troppo grande, troppo piccola; oppure incolmabile. Per Polifemo, grande e impossibile da colmare quella nei confronti di Galatea che lo rifiuta. Tutto il suo canto è il desiderio frustrato di raccorciare, la furia è infantile impotenza. Per Aci e Galatea, la giusta distanza è soltanto sfiorata, interrotta bruscamente com’è dalla violenza, e sublimata nella fedeltà, e nella trasformazione di Aci in fiume, che la rende eternamente giusta, anche se dolorosamente e inutilmente. La violenza passionale sfiora il caos, il buio indistinto della morte: ma il mito ricostituisce l’ordine, seppur soltanto nella dimensione superiore della malinconia. Inoltre, l’amore è distanza non solo tra l’amato o l’agognato, ma anche all’interno: come ideale cui speriamo che le vicende reali si conformino. Di qui le parole dell’amore che sperano sempre di raccorciare e rappresentare l’aspirazione amorosa. L’amore è un sentimento che continuamente guarda se stesso.
La regia di Livermore sceglie così di raddoppiare i tre personaggi sulla scena. Siccome la trama non è altro che la riflessione sulla distanza dai tre punti di vista d’una delle vicende più eterne del mondo (lui, lei, e il desiderio frustrato che l’altro ha di lei), il fatto che ogni personaggio abbia un suo doppio muto e danzante permette di rendere visivamente e drammaturgicamente quanto enunciato dalle parole dei personaggi, sia nelle relazioni che essi hanno tra di loro (la distanza esterna); sia nella riflessione che i personaggi fanno su se stessi e sulla vicenda. Scelta efficace sia nelle scene collettive, ma soprattutto nei momenti in cui un personaggio è solo in scena. L’interazione col doppio a quel punto permette di non interrompere l’azione scenica, risolvendo così uno dei momenti più problematici per la rappresentazione, e rendendo perfettamente godibile al giorno un’opera barocca: l’attenzione non stacca.
La scena, che è l’interno di una villa settecentesca in rovina, con le finestre senza vetri e una spiaggia che la invade (ricordo/anticipazione della fine marina della vicenda) è di nuovo un rimando. C’è un passato che i nostri occhi associano a un certo di tipo di ordine (estetico, non del mondo) ora degradato, ma pur presente <>in absentia. La distorsione malinconica in questo caso è accentuata dalla distorsione prospettica: il piano della scena è inclinato verso la scena, e le linee sghembe dei muri paiono viste come da un grandangolo. Le finestre e la volta non sono spazi neutri, ma anch’essi portatori di senso, poiché continuamente riempiti da suggestive immagini. Il tutto, non dimentichiamolo, perfettamente inserito in quel rinnovato gioiello che è il Carignano.
Una messa in scena di grande valore, pienamente sorretta dall’esecuzione musicale. Grande plauso soprattutto per le due interpreti femminili: per la dolentissima Sara Mingardo nei panni di Galatea, e per Ruth Rosique, che dà vita a un Aci vigoroso, furioso, acrobatico, passionale. Leggermente meno efficace ci è parso Antonio Abete, soprattutto nei momenti in cui era richiesta agilità. Di notevole livello la Cappella della Pietà de’ Turchini, diretta da Antonio Florio.
di Stefano Mola