Recensendo Carmen
Marzo 15, 2006 in Spettacoli da Stefano Mola
Dopo aver presentato la Carmen di Georges Bizet scavando come sempre in modo semi-serio all’interno del libretto, cercando di farci un’idea del perché il povero Don José non ce la poteva fare, vi porgiamo qui di seguito le nostre impressioni sullo spettacolo in scena al Regio fino al 26 Marzo per complessive 11 recite.
Partiamo da quello che si vede. Come già detto, sulla regia c’è la firma geniale del prematuramente scomparso Jean Pierre Ponnelle (1932 – 1988), cui si devono anche le scene e i costumi (per il Regio, la regia è ripresa da Laurie Feldman). Cosa vediamo dunque? Indubitabilmente la Spagna. Richiamata in modo chiaro, senza eccessi folcloristici, con essenzialità. Il tema conduttore della scena è un muro leggermente soffocante, che sembra spingere i cantanti verso il bordo della palco. All’interno di questo cui si apre un arco, di volta in volta porta di ingresso della caserma, sostegno del balcone della taverna, parete di montagna, ingresso nell’arena. Le quattro scene sono diverse per piccoli tocchi. Non c’è fasto: gli ambienti della vicenda sono poveri. In Carmen non c’è il gran mondo: ci sono i bambini di strada, i soldati, i contrabbandieri, gli avventori delle taverne, le sigaraie. Non c’è bisogno di stucchi e ori.
Uno dei tocchi più belli è l’uso luci (curate da Andrea Anfossi), che definirei cinematografico. Come si possono fare dei primi piani, degli zoom, all’opera? Nella celeberrima habanera con cui Carmen fa il suo ingresso sul palco, per esempio, a un certo punto si fa buio e due coni di luce isolano Carmen e il povero don José. Perché il dramma è lì, sono loro, anche se in mezzo a decine di soldati e sigaraie e bambini (come direbbe Pavese, era chiaro che eravamo noi due, credo sia da Il compagno). Lo stesso accade nell’atto terzo, mentre José è a mezza montagna e Carmen consulta le maledette carte.
Altro aspetto molto convincente dello spettacolo è la cura nella recitazione dei cantanti. Carmen è un’opera di relazione. Ci sono pochissimi momenti in cui un personaggio si deve piantare al centro della scena come un monolito per esprimere i suoi tormenti esistenziali. La seduzione è un affare di distanze relative, di sguardi, di gesti, di mi avvicino e mi allontano e poi mi avvicino, eccetera. E Carmen è la seduzione, con tutte le sue conseguenze positive e negative. Un testo filmico. Se i cantanti non si muovono bene gli uni rispetto agli altri, non funziona mica tanto.
Per dare un’idea della cura del dettaglio, quando la sventurata Micaela porta a don José per procura il bacio della madre, si vede lei che alza leggermente le braccia, ma non cinge José. Le braccia di lei cingono lui, ma restando a distanza di sicurezza, senaz toccarlo, in un gesto a metà. Perché Micaela è così: è a metà. Ama José, ma non ha il coraggio di dichiararsi e interpone davanti a sé il fantasma della madre di lui. Lo chiama a sé evocando lei. Secondo voi, José, cui Carmen ha appena strofinato in mezzo alla fronte una rosa, da chi è attirato?
In quell’abbraccio abortito per esitante timidezza c’è tutto il personaggio di Micaela, nella recita da noi vista interpretata molto bene da Virginia Tola. Non solo ha mostrato indubbie qualità vocali, sia di delicatezza che di potenza, ma anche drammatiche, grazie al phisique du role. Esile, chiara di carnagione e di capelli, un visino a modo: perfetta.
Così come lo è la Carmen di Julia Gertseva, con quella massa di capelli neri e mossi che ci s’aspetta proprio da una Carmen. Decisamente attraente, la Gertseva tiene la scena veramente benissimo, si muove decisamente comme il faut, seducente e drammatica il giusto. Il ruolo sembra fatto per lei. Anche dal punto di vista vocale regge ottimamente la parte.
E don José? Marco Berti ha una voce molto bella e potente. Dal punto di vista dello stare in scena, forse è il più ingessato tra i personaggi principali, anche fisicamente è meno agile, meno narrativo. A pensarci bene però, è proprio il personaggio di José che non si muove. Non in senso fisico, ma nel senso del ruolo nella vicenda. Certo, di cose ne fa: uccide svariate persone tra cui Carmen stessa, diserta eccetera. Ma non lo fa mai con convinzione intima: lo fa per accecamento amoroso, per strappi ciechi da cui sempre retrocede. In fondo i suoi piedi sono sempre cementati in Navarra, nella stanza della mamma malata. È scomposto, non riesce a perseguire fino in fondo la sua attrazione per una donna al di là di tutto come è Carmen, che invece percorre il filo teso del suo istinto con una coerenza assoluta e fatale. Da questo punto di vista, il Marco Berti lievemente ingessato funziona.
E Escamillo? Ildebrando D’Arcangelo è tronfio il giusto,sprezzante, piantato dritto come un fuso sulla scena, inamidato di assolute superbia e sicurezza, come il ruolo richiede. Il suo toreador è spettacolare.
Perfetto vocalmente e drammaturgicamente lo Zuniga di Giuseppe Riva. Lui si che interagisce sulla scena in modo efficacissimo con la Gertseva, in questa sua parte di tracotante da commedia dell’arte, nel suo immaginarsi seduttore alieno dal sentimento (mentre don José sente la passione ma in fondo al cuore, come abbiamo scritto, ha le ciabatte della casa di Navarra, dunque l’amore familiare). Zuniga, detto in parole povere, vorrebbe farsi Carmen e basta. Non ce la potrebbe mai fare, ma ci prova lo stesso. In tutto questo, Giuseppe Riva è comico il giusto.
Potrebbe sembrare strano parlare di comico in un melodrammone come la Carmen. Ma gli aspetti comici ci sono eccome. Perché è l’essenza stessa della vita, che non procede per generi: li mischia tutti. Nella mia ripetitività (sarà la vecchiaia incipiente) non mi stanco mai di citare Auden, e la sua Musée des Beaux Arts:
Non sbagliavano mai i Vecchi Maestri
quando si trattava di sofferenza: come capivano bene
la sua condizione umana; come essa càpiti
mentre qualcun altro sta mangiando o aprendo una finestra
o anche solo passeggiando indifferente
E quindi più feconde di senso sono le storie dove succede questo. Come nell’apertura del Don Giovanni di Mozart. Leporello si lamenta da servo sfruttato comico e due minuti dopo Don Giovanni prima cerca di violentare Donna Anna e poi uccide il padre. E quando la scena finisce, cosa chiede Leporello a Don Giovanni? Dice: chi è morto? Voi, o il vecchio?
Anche nella Carmen succede questo. C’è la seduzione da Alberto Sordi di Zuniga e poi la sua morte stupida per mano di don José. Per questo, tanto per restare ai dettagli di cui sono maniaco, è perfetto che sul muro, già nella prima scena, ci sia un graffito rosso: W Escamillo. Sembra una stupidata, una strizzata d’occhio da vaudeville, ma è veramente un tocco di classe. Contemporaneamente ammicca alla commedia e ricorda la tragedia imminente.
Un più sul registro per tutti gli altri interpreti: Alessandro Luongo (il Dancairo) Enrico Facini (Remendado), Gladys Rossi (Frasquita), Silvia Mazzoni (Mercedes), Claudio Ottino (Morales), Vito Giovanni Liuzzi (Lillas Pastia). Menzione d’onore per il coro delle voci bianche. Precisa, leggera, grande dosaggio dei volumi, brillante: ecco la direzione d’orchestra di Patrick Fourniller.
In chiusura, l’unica cosa che
non mi ha convinto: nell’ultimo atto Carmen entra in scena con un vestito completamente, virginalmente, sposaliziamente bianco. Perché agnello sacrificale? Perché ormai signora al fianco di Escamillo? Non so, ma io una Carmen in vestito completamente bianco non ce la vedo. Ma il godimento dato da questo spettacolo magnifico visto al Regio seppellisce ampiamente questa piccola perplessità.
(le foto nell’articolo sono di Ramella & Giannese, dal sito del Regio)
di Stefano Mola