Recensendo Thaïs
Dicembre 19, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
Sapete quei giochi dove ti dicono: adesso ti dirò una parola, tu dimmi quella che spontaneamente le assoceresti. Bene, nel caso della Thaïs allestita dal Regio con Stefano Poda, la mia risposta sarebbe: algida. Per la scenografia: il bianco dominante, le pareti incombenti che schiacciano i cantanti, i costumi (bianchi, o neri). Per la lentezza che caratterizza quasi tutti i movimenti di scena e i balletti. Una vicenda che sembra filtrata dal ricordo, che sembra raccontata non mentre accade, ma da una grande distanza, come una specie di visione.
Un esempio. Quando nel primo atto al nostro povero monaco Athanaël arriva la visione di Thaïs, il libretto originale recita: nella nebbia appare l’interno di un teatro ad Alessandria. Folla immensa sui gradini. Davanti si trova la scena, su cui Thaïs, semi svestita, con il volto velato, mima gli amori di Afrodite […] Immense e assai prolungate esclamazioni d’entusiasmo del pubblico.
Come risolve tutto questo Poda? Facendo innalzare il palco, così che sotto ai piedi di Athanaël compare una scena nera con Thaïs al centro, nerovestita, circondata di energumeni immobili semisvestiti. Tutto rimane fermo, come fosse una vetrina d’un negozio di tendenza.
Questo sia detto a titolo d’esempio, e non per fare le pulci ad ogni cosa come un Puffo Quattrocchi. Non sono sicuramente un difensore dell’ortodossia dei libretti e delle ambientazioni controllate al millimetro e al secondo rispetto all’originale.
Mi sembra che, tra il quadro e l’azione, tra la rappresentazione e la narrazione, Poda abbia privilegiato i primi. Ciò che conta, è provare a rispondere a questa domanda: la scelta è funzionale?
Qualche ragionamento. La sensualità lussuriosa e decadente di Alessandria viene secondo me praticamente azzerata (nonostante le ballerine a seno nudo). Forse la scelta di questa algida distanza è per portare fin dall’inizio la prospettiva dal punto di vista di Thaïs. Colpita dalle parole del monaco, che tuttavia si incastrano in un percorso interiore già iniziato:
Tutti gli uomini altro non sono che indifferenza e brutalità
Ho l’anima vuota
Dove trovar riposo?
E come fermare la felicità?
Oh mio specchio fedele, rassicurami
Dimmi che sono bella e che lo sarò per l’eternità
Thaïs capisce che non è in questo mondo che la sua ansia potrà essere risolta. Athanaël null’altro è che un cerino, la miccia era già in lei. Forse questa sensazione di lontananza che ho provato di fronte alla scena significa questo: non è importante quello che è successo prima, la sua rievocazione precisa, il dettaglio rosso e sensuale. Se così fosse, avrebbe ancora un posto nell’attenzione di Thaïs, mentre così non è. Non lo è praticamente più sin da quando lei compare sulla scena. Forse ne avrebbe per Athanaël, che alla fine capisce di desiderare carnalmente colei che immagina di aver redento, perdendo invece se stesso.
È il fallimento del maschile, non il trionfo del pericolo rappresentato dalla donna. Athanaël è debole, mentre Thaïs è forte, fino alla fine. Forse lo spettacolo che vediamo è quello che vedrebbe Thaïs se si voltasse indietro dalla sua ultraterrena distanza.
Detto della messa in scena, e aggiunti i complimenti al corpo di ballo, passiamo a musica e cantanti. La direzione di Gianandrea Noseda m’è parsa sicura, compatta, attenta alle sfumature, ai cambi di volumi. Nel ruolo eponimo, grande prova di Barbara Frittoli, intensa e dolente, giustamente ricompensata in maniera entusiasta dal pubblico. Convincenti l’Athanaël del tenore georgiano Lado Ataneli e il Nicias di Alessandro Liberatore. Una menzione per Eleonora Buratto e Ketevan Kemoklidze, giustamente e frivolmente trillanti nei panni delle schiave Crobyle e Myrtale (i nomi dei personaggi sono tutto un gusto, in quest’opera).
di Stefano Mola