Ritorno a casa | Sudate Carte Racconti I edizione
Novembre 26, 2002 in Sudate Carte da Redazione
Il ragazzo correva.
L’asfalto sotto i piedi, l’orizzonte lontano, il cielo pesante della sera. Dietro di lui, le urla del mondo sembravano ad ogni passo più lontane. Ma si sentivano ancora, quelle urla, fameliche, insistenti e furbe: quando ci si viveva dentro, non si poteva sentirle. Solo scappando via, solo correndo lontano da tutti quei rumori, se ne poteva percepire la costante presenza, come un macabro sottofondo. Cos’erano quelle urla? Erano tante cose. Erano la paura per un futuro misterioso, erano l’agonia della spensierata adolescenza, erano il dolore per un amore finito, erano i mali della gente. C’erano, quelle urla, e lui, ora, le sentiva.
Ma non scappava.
Il ragazzo correva, gli occhi fissi davanti a sé, la mente concentrata, i muscoli pulsanti. Correva per non sentire niente altro che il battito del cuore, il respiro forte e sicuro, l’aria fresca d’autunno sulla pelle. Tante volte avrebbe voluto correre, nella vita, ma non aveva potuto. C’era sempre stato qualcosa da fare, qualche parola da dire, qualche sguardo da sostenere. C’era, naturalmente, da far finta di essere al posto giusto, di stare bene, di non avere problemi, pensieri, tristezza nel cuore. Lui ne era capace, fingeva, sorrideva, e tutto il mondo, così incredibilmente distratto e forse troppo indaffarato, non si sarebbe mai accorto di niente.
Mentre continuava la sua ritmica andatura, si ritrovò a pensare a molte cose. Pensò a com’era arrivato fin lì, pensò alla sua infanzia, a come era stato facile, tempo prima, ridere di tutto e per tutto. Ma ciò che conta è non avere rimpianti, e lui non ne aveva. O forse no. Forse quello che davvero era importante, non era altro che non sentire mai il bisogno di correre. E lui quel bisogno lo sentiva ogni ora, ogni minuto. Lo sentiva nelle notizie sui giornali. Lo sentiva nella fatica di essere ogni giorno migliore del giorno prima. Lo sentiva soprattutto guardando quella fotografia, quella in cui lui e lei ammiravano il tramonto abbracciati. Soprattutto davanti all’immagine crudele di un amore finito, non aveva voglia né potere di scegliere di non correre.
Anche adesso pensava a lei. La pensò attraversando la terra dei campi, girando attorno ad una scuola, guardando i bambini che giocavano a pallone, le auto sfrecciare, piegandosi per la fatica e poi rialzandosi per correre ancora. La pensò soprattutto quando la strada iniziò a salire, perfetta metafora del suo vivere. Il passò rallentò, il cuore accelerò. Ma il pensiero non si mosse, anzi divenne più ostinato, più forte, impossibile da trattenere. Fu un pensiero malinconico, una fitta di nostalgia, un dolce ricordo, ancora più romantico del sole che colorava di rosso e di fuoco quella fotografia che avrebbe voluto dimenticare. O forse scattare ancora mille volte in mille attimi perfetti.
Poi, come sempre accade a tutto ciò che non è eterno, anche la salita finì. E allora successe qualcosa.
Successe che il ragazzo decise di fermarsi, eppure non si fermò. Successe che si sentiva troppo stanco per continuare, ma continuò. Andò oltre dove si era sempre fermato, dove non aveva mai osato spingersi. I primi passi furono pesanti, dolorosi, poi tutto venne da sé e fu molto più facile.
E allora si accorse di non essere più solo.
IL cane scappava.
Si allontanava dai colpi delle pietre che qualche incosciente gli stava lanciando con una fionda. Solo pochi attimi prima, se ne stava accoccolato sotto un portone, beatamente baciato dagli ultimi raggi del sole morente. Annusava l’aria in cerca di qualche traccia di cibo, perché l’istinto gli diceva che presto avrebbe avuto fame.
La prima pietra l’aveva colpito su un fianco. Un sibilo, una fitta di dolore, un guaito. Si era alzato di scatto, drizzando le orecchie appuntite. L’istinto suggeriva di muoversi in fretta, prima di farsi male sul serio. Ma il secondo proiettile era arrivato troppo presto, così presto da non dare all’animale il tempo per fuggire. Sssnapp!, e un fulmine di dolore gli aveva trapassato nuovamente il corpo. Allora il cane era scappato. Uno scatto elegante, potente ma non scomposto, una, due, tre falcate e poi via, verso un posto più sicuro. O forse solo un po’ meno crudele.
Ma non si era più fermato. Anche se era certo che le pietre, laggiù, non avrebbero più potuto colpirlo, non voleva fermarsi. Non era un cane giovane, e quella corsa così intensa, così necessaria, così incredibilmente vissuta, gli fece ricordare con orgoglio gli anni del suo massimo vigore. Ripensò a quell’uomo alto e forte, quello che lo chiamava sempre emettendo lo stesso incomprensibile suono, che gli procurava il cibo chissà come, che lo accarezzava accanto al divano nelle fredde sere d’inverno. Quello che un giorno era sparito. L’aveva accompagnato in una delle tante passeggiate che insieme facevano nel bosco, poi si era addormentato dopo aver corso e giocato in una radura. E al risveglio l’uomo alto non c’era più. Aveva sofferto terribilmente, sconvolto dai nuovi e sconosciuti odori della vita selvaggia, dai pericoli della strada, e più di tutto dalla solitudine.
Però era sopravvissuto. Aveva imparato a distinguere cosa si poteva mangiare da quello che avrebbe potuto ucciderlo. Aveva trovato un riparo per la notte in una cantina abbandonata. Ora sapeva perfino curarsi da solo se qualche volta, per caso e per sfortuna, si feriva. Non aveva mai odiato l’uomo alto e forte che era andato via: sapeva che, se non si fosse stancato di cercarlo, prima o poi l’avrebbe ritrovato e avrebbe di nuovo sentito quell’incomprensibile ma rassicurante suono.
Senza nemmeno volerlo, il cane continuò a correre. Attraversò strade deserte e silenziose, calpestò terra dura e fredda che poi divenne fango, viaggiò attraverso una distesa di alberi quasi spogli.
Poi lo vide.
Vide un ragazzo sudare e ansimare lungo la salita. Lo vide piegarsi in avanti con una mano sulla pancia, il volto arrossato, la bocca spalancata. Non ebbe paura nemmeno per un solo momento, si limitò a rallentare l’andatura finché la corsa non divenne trotto.
Il ragazzo fece gli ultimi metri ondeggiando e quasi fermandosi, ma non si fermò. Il vecchio cane si dimenticò di tutto ciò che lo circondava, e affrontò la salita a sua volta in un commovente inseguimento. Lo raggiunse un attimo dopo la cima, rimase volontariamente indietro in modo da non farsi vedere, poi il ragazzo alzò la testa e incredibilmente ricominciò a correre leggero e con passo sicuro. Allora il cane si fece coraggio, accelerò fino a giungergli affianco e voltò il muso per guardarlo. Non era l’uomo alto e forte. Era più giovane, più magro, e più triste.
I loro occhi si fissarono.
Era certamente un uomo buono.
ERA certamente un cane buono.
Sbucato da chissà dove (ma era poi così importante?), ora c’era questo cane che correva accanto a lui. Non ne conosceva la razza. Parlargli sarebbe stato stupido, e poi non aveva fiato. Così fece quello che sapeva fare meglio: continuò a correre, e da subito ebbe la certezza che l’animale avrebbe corso con lui, ma non per giocare. Aveva anche lui bisogno di correre. Forse scappava, o forse, semplicemente, si sentiva solo dopo essere stato abbandonato. Eppure sembrava un cane randagio. Era sporco, forse anche ferito, e le zampe sanguinavano. Se era abbandonato, lo era da tempo. Chissà quante e quali sofferenze doveva aver affrontato e superato.
Gli permise di restargli accanto, anche perché sapeva che fermarsi e tentare di allontanarlo sarebbe stato un sicuro insuccesso. Di colpo, smise di sentire le urla del mondo dietro di sé. Svanirono tutte insieme, lasciando il posto al rumore dei passi sul letto di foglie morte e al respirare umido del cane. Si sentiva bene, ora. Non era stanco, non era più arrabbiato con la vita. Era sereno. Continuava a guardare il bellissimo animale corrergli vicino, e ogni tanto lui voltava la testa e nei suoi occhi non c’era che una richiesta: permettimi di rimanere con te.
Certo, avrebbe volut
o dirgli, puoi restare finché vuoi. Non sei più da solo.
IL ragazzo e il cane corsero insieme fin dopo il tramonto. Tornarono da dove lui era venuto, facendo un lungo giro, lontano dal traffico della giornata che finiva, lontano da tutti i pensieri e le preoccupazioni. Il cane non dava nessun segno di stanchezza, la lingua penzolava come succede a tutti i cani che corrono, ma il passo era sicuro e regolare. Il ragazzo era ormai stanco, invece. I polmoni bruciavano, le gambe faticavano a tenere il ritmo.
Era completamente sudato. La maglietta bianca gli si era incollata alla schiena. Gli occhi bruciavano quando qualche goccia di sudore li colpiva. La gola era secca, non avrebbe nemmeno potuto parlare. Ma sentire quel sudore che scivolava via era come cambiare pelle. Scivolava via e dove passava puliva. Toglieva tutti i torti, tutti i dispiaceri. Purificava. Avrebbe voluto che non finisse mai.
Ma era ora di fermarsi, non c’era più motivo di correre. Il ragazzo non stava certo scappando, ma anche se così fosse stato, non c’era più niente da cui fuggire. D’un tratto anche il cane gli sembrò stanco.
Fecero ancora qualche metro insieme, mentre la notte ingoiava l’ultima luce del giorno. Ad un certo punto il ragazzo fu certo che il cane se ne sarebbe andato. Si sarebbero guardati un’ultima volta, poi l’animale avrebbe cambiato direzione e sarebbe tornato nel mistero da cui era venuto. A lui andava bene così, era giusto che andasse così.
Invece il vecchio cane gli rimase accanto. Allora lui capì che se anche avesse corso per sempre, non avrebbe corso mai più da solo. Che quell’incredibile amico sarebbe rimasto con lui come un’ombra, forse fino a morire di fatica. Era una sensazione meravigliosa: avevano bisogno l’uno dell’altro.
I loro occhi si guardarono ancora una volta.
Il cane sbuffò, e il ragazzo sorrise mentre una lacrima gli rigava il volto lucido di sudore. Poi entrambi rialzarono lo sguardo verso l’orizzonte.
Il ragazzo fece gli ultimi metri pervaso da una gioia che aveva dimenticato.
ERO felice. Stavo di nuovo tornando a casa.
di Francesco Fornaro