Salome secondo Robert Carsen
Marzo 3, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
Aspettavo questo spettacolo come un evento, per la regia di Robert Carsen, e non sono stato per nulla deluso. Anzi. Ancora una volta un’opera mi ha raccontato il tempo che viviamo: su questa Salome ho fatto un bel po’ di pensieri. Li ha generati il testo, insieme alle scelte dell’allestimento.
Cosa ha scelto Carsen? Niente templi o colonne. Non cerca di riprodurre un immaginario decadente di mollezza romana. C’è invece una parete incombente, di freddissimo metallo, interamente ricoperta di cassette di sicurezza. Erode che cosa è? Erode è il potere svincolato da ogni sfera morale. Il potere come arbitrio. Credo sia abbastanza incontestabile che questi nostri tempi siano dominati dalla strana idea di crescita infinita del fatturato (una cosa inquietante, da un punto di vista fisico-matematico: il nostro pianeta è un sistema chiuso e limitato, dunque questo dovrebbe essere quasi impossibile da un punto di vista teorico, ma si sa che la matematica si studia sempre meno). La crescita illimitata è un concetto economico: il potere è allora abbastanza identificabile con il denaro. Lo so che tutto questo sembra trito e ritrito, già detto e già visto. Ciò non toglie che qualche sfumatura di brutale verità ci sia. Un po’ come quelle grandi banalità della saggezza popolare, che se ci sono, qualche motivo ci sarà pure.
Il potere come denaro, dunque, ma anche come arbitrio. Qualcosa dove il messaggio non c’è più. Non solo: dove un messaggio non può più nemmeno essere capito. Infatti tutti dicono del povero Jokanaan: ragazzo, qui non ti si capisce. Jokanaan è il messaggio. È qualcosa che nel mondo metallico non c’è più e forse non può nemmeno tornare. Nella sua unica uscita sulla scena, quando Salome tenta senza successo di sedurlo, alle sue spalle invece delle cassette di sicurezza c’è un fondale di desertiche sabbiose dune. Spazio profetico per eccellenza, o quantomeno luogo di meditazioni eremitiche. E anche luogo di solitudine. Spazio altro, spazio dimenticato in quanto natura, che ormai esiste solo quasi come immagine e immaginario e quindi come non esistente. Spazio economicamente improduttivo.
Quindi questo spazio c’è? Lascio la domanda aperta, e introduco anche un altro problema di localizzazione, quello relativo al luogo di detenzione di Jokanaan. La lettera del testo dice: in una cisterna. Un buco nel pavimento. Qui invece la sua voce proviene di lato, attraverso una porta blindata circolare. E da lì arriva anche una luce gialla, calda. Non è sotto. E non è buio, se arriva luce. Chi è davvero imprigionato? Dove sono davvero il fuori e il dentro, l’esclusione e l’inclusione? Non sarà allora lo spazio in cui si muovono Erode e compagnia ad essere blindato, astratto, avulso, finto?
Un’altra caratteristica fondamentale del mondo di Erode e Salome è lo sguardo. Il vedere superficiale. L’immediatezza. Ci sono schermi da cui i guardiani osservano cosa succede. Su questi stessi schermi verranno proiettate le immagini di Salome che Erode riprenderà con una telecamera durante la danza dei sette veli. Non basta vedere, si deve dimostrare di aver visto. Le cose accadono davvero solo se possono essere messe su un supporto ed magari messe in circolo. Probabilmente se non ci fosse stata la tragica fine, Erode quella sera avrebbe messo il filmato di Salome su YouTube.
E infatti Salome dice a Jokanaan: tu non mi hai guardato. Se solo mi avessi guardato, ti saresti innamorato di me. Se la parola non può più essere compresa, il mondo si riduce al consumo della sua pellicola esterna. Salome non solo è bella, ma ha sicuramente la consapevolezza di essere bella, e il conseguente capriccio che la bellezza sia sufficiente. Ci guardiamo, apprezziamo vicendevolmente le nostre pellicole, dunque questo è amore. Erode la guarda, e anche molto. Molte volte il testo fa dire ai personaggi: non guardare, tu guardi troppo. Perché guardare, siccome il linguaggio è azzerato, significa necessariamente comunicare desiderio. Il grado zero del rapporto.
Salome è il prototipo della non crescita. Si aggira all’inizio in pantacollant neri, come un’adolescente annoiata e dark. Salome deve avere le cose perché le deve avere. Salome è il capriccio, è la figlia viziata cresciuta in un mondo dove i genitori hanno perso l’autorevolezza. Erode ed Erodiade sono vestiti da nouveaux riches. Lui ha una giacca tipo disco con catenazza al collo, una camicia con colletti a deltaplano. Intrattiene una corte dei miracoli di ammiratori, che aspettano solo di poter godere delle briciole che cadono dalla sua mensa (soldi e gioielli a pioggia). Servono ai tavoli uomini e donne in topless, a cui la corte dei miracoli infila denaro nei succinti indumenti.
Che differenza c’è tra Erode, Erodiade e Salome? Non c’è alcuna gerarchia educativa, nessun rapporto di autorevolezza. Erodiade esulta quando Salome chiede esplicitamente la testa di Jokanaan. Erode, che in teoria sarebbe il patrigno, la desidera esplicitamente (perché la guarda). C’è una orizzontalità assoluta. Salome non ha nemmeno bisogno di ribellarsi, non deve fare il suo 1968. Dall’altra parte c’è un muro di carta velina, trasparente quanto basta perché lei possa esercitare quello che è l’altro potere di questo mondo, oltre al denaro: la bellezza. La superficie lucida e lucidata da bramare.
Se non posso avere l’altro, allora lo elimino (basta scorrere le pagine della cronaca per accorgersi di quanto è vero). Per farlo Salome decide di esercitare il suo potere appena le si presenta l’occasione. E qui siamo alla danza dei sette veli. Carsen la risolve in maniera secondo magistrale. Salome entra in scena con un vestito lungo e luccicoso. Niente pantacollant, quando il gioco si fa duro si mette tutto in campo. Si muove sulla scena come una spogliarellista. Perché in questo mondo qui, non parliamo nemmeno più di seduzione. La testa non gioca, c’è solo la pellicola, la superficie. E il mondo reagisce. Ai sette veli corrispondono sette vecchi che le turbinano goffamente intorno, e che in preda al delirio masturbatorio si spogliano a loro volta. In questo mondo bipolare – denaro e bellezza – Salome ha in mano le redini della seconda. Una scena che potrebbe essere in un qualunque locale equivoco.
E su tutto questo, metteteci la pastosa, ricca, coloristicamente folgorante musica di Strauss, offerta da Noseda con la padronanza e il giusto pathos ove necessario. Una musica che non è più quella di Beethoven o di Bramhs, ma nemmeno quella che si allontanerà irrimediabilmente verso il pianeta dodecafonico. Una musica meravigliosa che sta in mezzo, e non sai se lo straniamento brechtianamente lo fa la musica o lo spettacolo, oppure uno lo fa all’altro.
In chiusura, parliamo dei cantanti. Per uno spettacolo così, è necessario anche sapersi muovere sulla scena, oltre a cantare. E devo dire che la soprano Nicola Beller Carbone è stata grande non solo nel canto. Irritantemente annoiata all’inizio. Perfetta nella danza dei sette veli. Stesso discorso vale per l’Erode di Peter Bronder, sicuro nella voce e davvero laido quanto questo ruolo richiede. Di buon livello tutti gli altri.
Uno spettacolo da non perdere.
Le foto che corredano l’articolo sono di Ramese e Giannella – copyright Fondazione Teatro Regio Torino
di Stefano Mola