Se una notte d’inverno | Sudate Carte Racconti I edizione
Dicembre 31, 2002 in Sudate Carte da Redazione
L’inizio, quello era strano.
Voglio dire, quando sai di avere un problema ti abitui a convivere con esso e ad un certo punto tutto inizia a sembrarti normale e la routine soffoca ogni meraviglia e stupore. Così, pian piano mi ero abituato alla mia ipersudorazione, o, come diceva con il sorriso stampato sulla faccia il mio dermatologo, all’eccessiva secrezione di liquido delle ghiandole sudoripare, ma ogni dannata volta era l’inizio del processo a lasciarmi stupefatto, il momento stesso in cui il mio corpo decideva, spinto da un’emozione più forte del normale, di secernere molto più sudore del solito, si riunivano in assise straordinaria le mie ghiandole sudoripare e l’assemblea così formata deliberava all’unanimità di inzuppare i miei vestiti e umiliarmi di fronte al mio interlocutore.
Era una riunione piuttosto breve, a dirla tutta, e ogni volta una rapida occhiata allo specchio mi testimoniava che erano le ghiandole situate nella mia tempia sinistra le più accese sostenitrici dell’ipersudorazione, forse perché irritate dal lungo viaggio compiuto per raggiungere l’assemblea, che sospetto si tenga all’altezza dell’esofago, non so.
Comunque, era lì che iniziava a formarsi la prima goccia, e a scendere lentamente lungo il viso fino a morire sulla mia spalla, ma tutto ciò avveniva qualche secondo dopo che le mie mandibole si serravano, all’improvviso, magari mentre ero nel bel mezzo di una conversazione, ad un certo punto mi bloccavo e benché mi sforzassi di emettere suoni anche indeterminati tutto ciò che riuscivo a fare era tremare come una foglia e rimanere con la bocca mezz’aperta.
Non ci si abitua a cose così. Davvero, non ci si abitua.
Le avevo provate tutte, questo è bene dirlo: medici, psicologi, chinoterapeuti, perfino un santone indiano di passaggio a Torino al quale avevo regalato un’ora del mio tempo e metà del mio stipendio. Tutto invano. Avevo contribuito a far esplodere gli utili delle società farmaceutiche ed il mio farmacista mi aveva fatto battezzare sua figlia in segno di riconoscimento, ma dopo qualche giorno di sollievo il problema si ripresentava.
Inutile dire che nelle aule di tribunale, dove da qualche anno esercitavo la professione di avvocato, la cosa non mi aiutava, ed i clienti non sono ben disposti verso un avvocato che cambia mediamente tre camicie nel corso di un’udienza e che ogni tanto si blocca durante un’arringa, come in stato ipnotico. Per questo anche gli affari non decollavano, ma era nei rapporti con l’altro sesso che la situazione precipitava, era lì che la mia tempia sinistra mieteva maggiori vittime. Non ero un brutto ragazzo, sebbene una certa innata timidezza mi abbia sempre impedito di avere successo con le donne. Fino ai diciott’anni, comunque, la situazione poteva considerarsi ancora accettabile, fino a quando cioè era comparso il problema. Da allora era stato un susseguirsi di defaillances, sempre alquanto imbarazzanti.
Risultato: avevo 29 anni, un buon lavoro, una discreta posizione economica e una vita sociale praticamente inesistente.
24 dicembre 2002, vigilia di Natale.
Ricordo tutto come fosse ieri. Alla tv davano un vecchio western d’annata, uno di quelli in cui ogni trenta secondi c’è una sparatoria e un cavallo che nitrisce, una tristezza infinita insomma, e ricordo ancora che fuori nevicava, soffici fiocchi bianchi ad accarezzare case, macchine e i passi frettolosi delle ultime famigliole in giro per gli acquisti di Natale. Ero solo in casa, o meglio ero solo al mondo, se si eccettuava la compagnia del mio televisore e di un vecchio giradischi. Ad un tratto spensi la tv e accesi il giradischi, vecchio quasi quanto il disco di Frank Sinatra che d’improvviso iniziò a girare, solo per un attimo però, poi si fermò, non sentii più The Voice, pensai che il giradischi fosse rotto, lo guardai, reggendo con mano malferma un bicchiere di whisky, e quasi lo sentii parlarmi, e dirmi:
“No, amico, sei tu quello rotto.”
Aveva ragione, il mio decrepito, dannato giradischi aveva ragione. Ero io quello rotto. E io non ero un giradischi. Nessuno mi poteva riparare.
Comunque, mentre ero assorto in questi allegri pensieri, suonò il campanello. Non volevo aprire, questo dovete saperlo, non volevo che nessuno mi vedesse in quello stato, ma poi spinto dalla curiosità di vedere chi fosse, mi trascinai stancamente fino alla porta, e dopo qualche secondo la vidi.
Era bellissima.
Non la porta, certo, ma la ragazza che aveva suonato. Non di una bellezza appariscente, questo no, ma soffusa, come una lampada che emette una luce tenue ma meravigliosa, ecco, i suoi occhi mi sembrarono subito due dolci lampade, e m’illuminarono, subito.
Touché.
Rimasi impietrito a guardarla, e a malapena potei udire la sua voce flebile chiedermi piano indicazioni per una via, un’indirizzo, che conoscevo benissimo, si capisce, si era persa, questo mi disse, mentre aspettava una mia risposta.
Ora, potrei dirvi che mi comportai come qualunque altra persona sana di mente avrebbe fatto al mio posto, ossia temporeggiai, la invitai dentro per bere qualcosa di caldo, occasioni così non capitano tutti i giorni, treni così passano una sola volta nella vita, la feci accomodare e iniziammo a parlare. Potrei dirvi che fui brillante e loquace, che la feci sentire a proprio agio, che ci riscaldammo pian piano l’un l’altra, di un calore nuovo e intenso, e che lei alla fine non andò mai a quell’appuntamento, ma rimase con me, a illuminarmi ogni giorno della mia vita.
Potrei dirvelo, certo, ma mentirei.
La verità è che probabilmente avrei vinto la mia timidezza e mi piace pensare che avrei effettivamente fatto tutto quello che ho detto, se non fosse che mi bloccai, all’improvviso, sull’uscio della porta, le mie mandibole si serrarono, non per un istante, questa volta, l’emozione era talmente forte che non riuscii a pronunciare parola per un tempo infinitamente lungo, riuscivo solo a fissarla, con un’espressione inquietante, e sapete come andò a finire? Beh, dopo un po’ evidentemente lei si spaventò, e scappò via. In fin dei conti come darle torto? Aveva bussato alla porta di uno sconosciuto e questo continuava a fissarla senza dir nulla.
Io mi ripresi, e tornai dentro.
Riaccesi la tv.
Il western non era ancora terminato.
Io non so. A volte la vita è strana. Da quel giorno la mia ipersudorazione scomparve, riacquistai sicurezza in me stesso, diventai un avvocato di successo, sposai una bella donna e oggi, a distanza di quarant’anni, posso dire di aver vissuto una bella vita. Ma non c’è giorno che passi che io non ripensi a quella notte, a quel treno che passò dinanzi casa mia, in una notte d’inverno, si fermò, ma io non riuscii a salire, non riuscii a valicare quel gradino che mi separava dall’ignoto. E’ vero, a quel treno ne seguirono altri bellissimi, e la mia vita cambiò, ma se quella sera io non mi fossi bloccato….
Se quegli occhi mi avessero accompagnato lungo il mio cammino, non so.
Sarebbe stata un’altra storia.
E un’altra vita.
di Alessio D’Ercole