Sotto la tela
Febbraio 25, 2001 in il Traspiratore da Simona Margarino
Ajed solleva le mani dal taccuino con un brivido e si accascia sulla didascalia appena letta, in braille: “Lara Brown, Stupore, 1973, National Gallery, Londra”.
La tela è piantata sul pavimento, sotto un velluto rosso, tanto pesante che a toccarlo viene da chiedersi “Chi mai si sognerà di toglierlo, un giorno?”. Ed è una domanda che farebbe meglio ad andarsene, insieme al nero del suo buio, immediatamente, senza parlare, almeno finché ci sarà ancora un po’ di mistero a nascondere tutto ciò che è bene non sapere, per il momento, nonostante l’ansia che prende alla gola e una voglia pazza di toccare e sentire e capire.
Se Dio avesse una faccia, o l’avesse avuta nel creare il mondo, sarebbe certamente quella incuriosita stampata sopra il collo di Adjed allorché sospira sulle parole che gli si sono incollate al cuore quanto un imperscrutabile peccato. Centomila notti di desiderio, un uomo che non ha altro che centomila notti per ascoltare.
Quando Lara entra nello studio la luce elettrica della lampada avviluppa lui e la tela, se li abbraccia entrambi nel suo calore da commiato, per illudere fino alla fine, e perciò loro restano lì, impalati come un istante imprigionato in una videocamera, un soggetto sfuggente inchiodato alla cornice di una parete, un salame appeso al centro giallo di un obiettivo, da gustarsi già che si ha fame, e poi mai più, e poi… mai più.
Sotto l’ombra della stanza danza una musica sottile a sferzare le braccia di una donna e di un uomo, incredibile a raccontarsi, un suono che va dritto allo stomaco, burrascoso e sconvolgente. Nel frastuono che assorda, tutto lei vorrebbe, tranne che lui dicesse quello che sta per dire, con voce dolce ma imperiosa, a zittire tutto il resto:
“Ditemi cos’è, Lara”
E lei che lo amerebbe, se solo avesse tempo, chiude gli occhi, ed è bellissima così, con le palpebre abbassate e la bocca chiusa in una risposta che non vuole venirsene fuori, nemmeno dopo un’eternità consumata ad aspettare, tanto che dopo un’infinità di silenzio quel che riesce a replicare è uno schifo, una tristezza, è l’unica cosa che crede di poter sussurrare, davanti ai suoi, di occhi, che non si apriranno se non forse all’ultimissimo momento:
“Credo che morirò domani, Adjed”.
“Cos’è che avete ritratto?”, insiste lui.
“Succederà che me ne andrò, è tutto…”
“Cos’è?”
“…tutto qui…”
“Vi prego”
“…e sarà più che non avermi mai visto”
Lei continua a buttargli quelle parole addosso, senza riguardo. Allo stremo Adjed scivola via dalla pazienza e getta via il mantello rosso della tela, infuriato. Se avesse occhi per guardare, scoprirebbe lo stupore di chi non vede che una tela nera, ma lui ha solo le sue mani, le sue dita e una voce per dire addio, addio per sempre, in ogni modo.
di Simona Margarino