Sudando di paura | Sudate Carte Racconti I edizione
Novembre 23, 2002 in Sudate Carte da Redazione
Tonnellate di esperti monitoravano continuamente le condizioni atmosferiche, per poterne trarre i migliori auspici possibili. Non accennava però a voler piovere. Una situazione paradossale, oltre che isterica. Una fascia di alta pressione insisteva indomita e ristagnante sugli stessi paesi, frustati ormai da giorni. Dove finiva tutta l’acqua che, così velocemente, evaporava da ogni posto possibile? Forse veniva immediatamente schizzata appena più a nord o più a sud, dove effettivamente si stavano verificando piogge sospette. O forse non ne evaporava poi così tanta, perché la terra ne assorbiva, senza tregua, un fabbisogno sproporzionato.
O forse era lo sconvolgente progetto di un nemico avverso, che li assediava, cocciuto, mediante la sete, come si faceva con una fortezza medioevale, inquinando proprio le riserve idriche. Fatto sta che quel cielo, che da sempre aveva pianto sui destini di coloro che si affannavano invano a rincorrersi, madidi di sudore, lì sotto di lui, aveva finito le proprie lacrime, seccandosi improvvisamente i condotti lacrimali.
Non erano calcolabili i giorni che, ancora, si sarebbe potuto sopportare l’accerchiamento, tantissimi già erano i morti che si contavano, quasi tutti in incidenti evitabilissimi con la normale lucidità mentale, ma molti uccisi proprio dalle temperature e dalla disidratazione.
Segni di speranza venivano da oriente, da dove sempre, come nel destino del nostro pianeta, giungono le notizie, perché prima s’accende la luce per leggere i vaticini celesti, e dove soprattutto si stava verificando un leggero e provvisorio miglioramento.
Nel nostro moderato occidente però, i sacri indovini tacevano scorati.
Persino sul bollettino dell’emergenza, che svendeva un ottimismo coatto e poco credibile, nessuno si lanciava in previsioni. Anche perché i normali canoni con cui si tenta da sempre di sapere l’aspetto temporale del giorno che ha ancora da venire, dimostrava ora di fare “acqua”. Anche quando una perturbazione che, secondo statistica decennale, si doveva dirigere in una direzione, immancabilmente schizzava altrove senza una logica apparente.
I nostri ragazzi continuavano a guidare e perciò, nonostante la brevità del percorso, hanno dovuto darsi il cambio al volante, per non rischiare troppo la vita; con le mani appiccicose sulla plastica del volante.
Quel loro piccolo mondo protettivo, abbandonato appena una manciata di vita prima, viveva ora abbracciato nella passione morbosa di un amore avvizzito nello spirito e per questo più violento sulla pelle, quel sole irato e bizzoso morsicava tra le sue fiamme il corpo esausto di Gea, nell’incontrollabile follia omicida di un amante sedotto ed abbandonato. Gli occhi di tutti coloro che ne erano stati colpiti erano risucchiati, e resi rinsecchiti come quelli metaforici dell’Adamo della cappella Sistina. Ma l’intelletto perduto non era, per ora, ancora avvicinato da nessun indice teso di matrice divina.
Il disequilibrio degli elementi naturali rendeva il fuoco padrone degli altri tre, e l’aria incatenata all’immobilità di quell’altissima pressione asciugava la terra che agognava morente, od ormai morta, quell’acqua perennemente inquadrata nell’abito, a lei non troppo conforme, dello stato gassoso.
Ci vorrebbe, …che so, una galassia di nuvole indotte dalla magia della scienza, uno specchio gigante che rimandasse un po’ di quei raggi a riscaldare l’universo gelato,… insomma ci vorrebbe un miracolo.
Un’occhiata della donna più amata: l’acqua.
L’austerità della ferita adopera la cinghia
nel consenso di un petalo già staccato,
ritrosa come tutte le altre,
a succhiarsi la corolla di una margherita
nell’ampolla di una vecchia,
dolce come una cipolla.
E tu le fai da concime,
e nel gruzzolo di un capezzolo
ci infili un’unghia,
che imprime il suo regime
come una bolla purulenta.
Che ridere fa’ il tuo sfiorirsi.
Che sollievo il profumo rattrappito del tuo giglio,
puro ancora e non vuole più colpe,
coltivando per sempre fiori.
Dal clitoride all’iride.
E su, su che lo sai dove voglio arrivare
non è più rosso di passione, è giallo come una mimosa.
La mimosa è meno perfetta di una rosa,
ma non meno bella,
in bilico e non meno fragile è la sua natura,
meno slanciata ma più fruibile la sua geometria,
meno delicato ma più pungente il suo profumo.
Guarda negli occhi un grande amore finito,
troverai un fiore di mimosa inorgoglito
ed un petalo di rosa appassito.
E davvero ora,
sorda come tutta questa folla,
non hai più da discutere.
Bella, dolce e nobile signora, dopo questo stupro di massa che hai dovuto subire, torneremo ad adularti come meriti, nella speranza di riuscire di nuovo a sedurti.
Ma tu, purissima acqua, ti prego, non rendere eterno il tuo rifiuto.
Una cosa è certa, il colore non è un attributo superfluo degli oggetti. Sono convinto che un stessa vela, dall’essere blu o gialla imbriglierebbe il vento in modo diverso. Le foglie, se fossero di diverso tono dal loro verde, certo non ci fornirebbero l’ossigeno in eguale modo.
Ed ancor più con certezza, gli umanoidi non potrebbero innamorarsi se il sangue che scorre nelle loro vene non fosse, come per fortuna è, rosso. E poveri siano i nobili, se davvero quello delle loro specialissime vene, è un fluido blu, tanto da scomparire e confondersi, quando i loro sospiri si perdono nel medesimo pigmento del cielo, non raggiungendo così in nessun modo il bersaglio delle loro brame (situato, come ben sapete, all’altezza della vita).
Ora potete ben capire che fosse giustificata la preoccupazione nel vedere un cielo rosso per venti ore su ventiquattro, ove normalmente avrebbe solcato tutta la sua gamma di blu, e raggiunto quei gialli e quei rossi solo in due specifici, distinti, e relativamente brevi momenti della giornata.
E gli occhioni ancora (Dio grazie) blu di Manù-smack, non si riuscivano a staccare increduli ed impauriti da quella cupola irreale, ed addirittura si riempivano di lagrime nello sfiorare quella terra quasi tutta brulla, e quindi marrone opaco e polveriforme, ove per sua natura avrebbe dovuto essere verde.
Ma si davano forza, con le manine ben intrecciate in una confusione di ditina e ditone ugualmente appiccicose, perché comunque per loro non sarebbe finita così.
di Ezio Dadone