Sudore tra sogno e realta | Sudate Carte Racconti I edizione
Gennaio 28, 2003 in Sudate Carte da Redazione
45 minuti alla partenza. Devo andare, devo cominciare il riscaldamento. Non ne ho voglia, fa troppo caldo. Perché fissano l’orario degli 800m alle 16.30? Perché? Non sanno che nel mese di luglio a quest’ora ci sono 30 gradi? Pazzi. Pazzo anche io: mi metto a correre. Cerco di fare riscaldamento all’ombra di qualche albero nel viale antistante la pista. Getto l’occhio verso la tonda linea rossa, ci sono i centisti che provano le partenze; non li vedo bene, c’è quella calura che fa muovere l’aria come succede alle macchine nei piazzaloni dei supermercati.
Guardo il cronometro: 5 minuti. Me ne rimangono ancora 10… Porca miseria che sete: ho la gola così secca che quando cerco di deglutire fa male. Vorrà dire che dopo la gara mi scolo un litro d’acqua tutto d’un sorso. Arrivo per la quinta volta alla fine del violone, mi giro e torno nuovamente indietro…ma quante volte dovrò farlo avanti e indietro?
Guardo nuovamente i centisti, poi il mio sguardo si muove un po’ più su, verso le tribune: la c’è la mia ragazza, è la prima volta che mi vede correre, devo fare bene, devo fare il personale.
Ahhh che bello 15 minuti! Dio sia lodato! Ho finito. Ora posso sedermi sul prato (all’ombra!!!) e fare allungamenti. Sono bagnato fradicio, penso che ogni singolo poro della mia pelle non ancora abbronzata stia emettendo quanta più acqua possibile, è un sudore diverso da quello da tensione per un esame, da quello quando ti fai una figuraccia, da quello quando prendi il sole in riva al mare. E’ il sudore del caldo, della corsa, dalla fatica.
Ma a me piace, sto bene, tra 20 minuti potrò esprimermi al meglio. Non ho male da nessuna parte, mi sono allenato bene. Dai! E’ la volta buona! Ce la faccio questa volta a fare il tempo minimo per i campionati italiani. E poi lo dedicherò a te che mi cerchi con gli occhi dalla tribuna.
Mi guardo intorno, tutti sono all’ombra, anche i miei avversari: ci squadriamo, siamo concentrati, sudati. Devo batterli!
Mi piego, tiro il quadricipite, il femorale, mi sporgo in avanti per i glutei, poi per i polpacci. Allargo le gambe e tocco terra con le dita delle mani per tirare i muscoli interni della coscia. Gocce mi scendono dal capo sul naso, sulle guance e arrivano fino alla labbra. Che schifo, salato. Mi passo la manica della maglietta per pulirmi. L’altoparlante annuncia la gara: devo presentarmi in partenza.
Prendo la sacca con la canottiera e le scarpe da gara. Le “chiodate” in gergo. Arrivo sotto la tribuna, le mando un bacio, e raggiungo il gazebo con i giudici. Hanno la divisa bianca, loro, mica scemi. Mi siedo e metto le scarpette, non pesano niente. Mi sono sempre piaciute, quando le metti schizzi via sulla pista velocissimo, devi appoggiare solo l’avanpiede. Mi alzo, devo fare almeno 4 allunghi, 100 metri aumentando sempre più la velocità. Li eseguo, il giudice fa l’appello, mi presento, mi metto in fretta e furia la maglia di gara. Una sensazione bruttissima, è di puro acrilico, si attacca a tutta la pelle bagnata. Non sono il solo ad avere questa sensazione: Marco ha una faccia strana, Enrico anche. Enrico…questa volta ti batto! L’altra volta mi hai superato nello sprint.Non succederà più. “Ai vostri posti!!!” Tuona il giudice. Ci disponiamo ognuno nella corsia prefissata in corrispondenza della linea blu degli ottocento metri. Momenti di attesa, interminabili secondi prima dello scatto.
Bang! Devo partire a tutta birra! Dopo la prima curva dalle corsie bisogna formare un unico gruppo in corrispondenza della tangente D. Ci sono due giri da fare, due stupidissimi giri. Ai 200 metri siamo tutti ammassati, ci si spinge un po’ altrimenti gli altri ti chiudono e non riesci a fare il tuo passo. Spingo uno a destra con il braccio e lo ritraggo bagnato.
Arriviamo al punto di partenza, 400 metri sono fatti, sono i più facili, la fatica non c’è ancora, l’allenatore mi urla 56’’. Buono, buono, ho fatto un buon passaggio. Ora viene il difficile.
La fatica incomincia a farsi sentire, la gola è secca, sudo pure sulle mani. Lo sento, inizio a contrarmi, le gambe non sono più agili, la frequenza dei passi aumenta a scapito dell’ampiezza. Mancano 200 metri all’arrivo. Maledetto acido lattico. Sale, comincia a salire, mi irrigidisco, le gambe vanno ora da sole, Penso: ma chi me l’ha fatto fare? Perché? Ma poi realizzo che sono 3 anni che mi alleno e oggi posso fare il risultato, devo farlo.
Adesso sparisce tutto, sono solo con la fatica. 100 metri, vedo il traguardo, corro male, lo sento, sono sbilanciato, la testa va indietro, chiaro sintomo di acidosi lattica. Sono i metri più faticosi in assoluto, duri da morire, senti che il cuore sta per esplodere, il tifo degli amici ti sfiora appena, non hai più sensibilità. Silenzio.
Rumore. Un rumore. Giro la testa e vedo mio fratello entrare in camera. Muovo lo sguardo verso la finestra e vedo la neve sul prato. Abbasso il capo e mi rendo conto di essere seduto alla scrivania di casa. Ora torna la memoria. Domani ho un esame, devo studiare…sono teso, sudato. Così riprendo lo studio delle equazioni Marcuvitz e Schwinger con una parte del cervello che è ancora immersa in quel bellissimo ricordo di libertà, caldo, fatica e sudore.
di Stefano Michelis