Transavanguardisti

Marzo 20, 2003 in Arte da Sonia Gallesio

L’arte negli anni Settanta trova nella creatività nomade il proprio movimento eccellente, la possibilità di transitare liberamente dentro tutti i territori senza nessuna preclusione…

La nozione dell’arte come catastrofe, come accidentalità non pianificata che rende ogni opera differente dall’altra, permette ai giovani artisti una transitabilità […] non più lineare ma fatta di affondi e di scavalcamenti, di ritorni e di proiezioni in avanti, secondo un movimento e una peripezia che non sono mai ripetitivi…

[Achille Bonito Oliva, Transavanguardia, Dossier n. 183, Ed. Giunti]

Tra gli anni Settanta ed Ottanta la vorticosa opera dei transavanguardisti italiani si oppone all’allora imperante Arte Povera. La loro produzione rispecchia un’epoca di crisi e di dubbio, ma soprattutto sottolinea la necessità di un ritorno all’immaginario, all’introspezione, al rapporto diretto con la manualità creativa. Spinti da ricerche e percorsi del tutto personali, ecco in breve i cinque baldi cavalieri della Transavanguardia

34196Nell’opera di Mimmo Paladino (Paduli, Benevento, 1948) ritroviamo il segno di Paul Klee, l’astrattismo espressionista di Kandinskij, le rappresentazioni strabuzzate di Picasso. Ma anche le suggestioni del teatro dei Pupi, i riti e le leggende popolari del sud Italia e una certa iconografia gotica tipica della civiltà longobarda – della quale sono rimaste moltissime tracce in Campania. La sua arte onirica e fantastica si nutre di tradizione e miti, di immaginario e di ancestrale, di natura e di storia. I suoi lavori sono intrisi di drammaticità, liricità, sacralità, magia ammaliante. L’artista amalgama pittura e scultura in opere da un lato delimitate dal formato del supporto telato o dalla cornice, e dall’altro liberate dagli stessi grazie ad un’espansione autonoma – materica e metaforica – al di là di essi (La virtù del fornaio in carrozza, 1983). Ai più sono note le sue immagini larvate (Lara-Vinca Masini), le sue esangui creature dalle teste calve e dalle orecchie lunghissime che paiono incarnare, come scrive Gillo Dorfles, “scorie d’una subumanità preda d’un’improvvisa catastrofe”. Dell’interiorità e dell’intuizione, i suoi giardini rappresentano vere e proprie foreste di simboli (come nella poesia di Baudelaire…), surreali teatrini nei quali le forme organiche e quelle simboliche coesistono e dialogano. In essi vi è al contempo libertà di crescita e controllo: il concetto occidentale di natura naturata (ovvero di una natura il cui sviluppo è in parte regolato dall’uomo, che supervisiona, definisce, predispone) viene integrato da quello orientale di paradiso naturale.

34198Così come le opere di Mimmo Paladino varcano i limiti materiali imposti dalla cornice del quadro e si protraggono verso l’esterno, anche l’arte di Nicola De Maria (Foglianise, Benevento, 1954) – seppur in modo diverso – si espande nello spazio circostante. Anzi, lo conquista e lo modifica con singolare poesia. L’elemento cromatico invade l’architettura e diviene a sua volta parete, stanza, dimora. Nei lavori di De Maria, l’energia del colore non è mai stridente o impaziente; al contrario, rimanda ad un bisogno di totalità, alla necessità della stessa creazione di abbracciare i luoghi del quotidiano. Infatti, la sua pittura non incombe mai sull’uomo, bensì si propone di conviverci. I suoi ambienti alternativi provocano un carezzevole senso di appagamento, tenue ma progressivo (“I colori e le immagini di De Maria modificano l’atmosfera del luogo, come se potessero ‘immergere’ la stanza in una luce speciale”, Carolyn Christov-Bakargiev). Questo particolare tipo di astrazione non vuole stordire lo spettatore, né meravigliarlo all’istante: il suo scopo è quello di arrivare alla sua sensibilità gradatamente, facendosi assorbire proprio come una melodia musicale. L’arte di De Maria rimanda ad un ritmo, ad una pulsazione vitale che è quella della soggettività. E’ un’entità senza sagoma né membra, flessuosa e dilatabile. Che sfiora infiniti paesaggi senza mai perdere la sua identità, per poi rivestire superfici e pareti “col suono cromatico di una pittura viaggiante e nomade” (Bonito Oliva).

34199Nella produzione di Enzo Cucchi (Morro d’Alba, Ancona, 1949) le figurazioni costituiscono apparizioni laceranti ed impetuose che catturano lungamente l’attenzione del pubblico. Di frequente, i suoi scenari rivelano la presenza di teschi umani (dislocati in maniera ariosa e costipata, rotolanti e fissati a barche, tronchi e cascate di colore, Bonito Oliva) che nel rievocare la morte divengono emblema della vita. Per l’autore anconetano, infatti, esistere significa anche essere consapevoli della sofferenza e dell’inesorabile trapasso. Nei suoi prodotti, le principali forze elementari sono in netta opposizione tra loro: creazione e distruzione, luce e buio, uomo e natura. Densa, violenta e turbinosa, la sua arte allude al dolore fisico e mentale – manipolando le rovine e i cocci delle esperienze vissute, ripartendo da essi per generare nuova linfa. Le sue opere vengono definite apocalittiche e profetiche, esplosive, dirette ed antintellettualistiche. Per Cucchi il fare arte non è un’esperienza eroica, bensì un mezzo per indagare la propria interiorità ed acquisire consapevolezza. Uno strumento per liberare energia creativa. Come le più recondite verità dell’anima, i toni delle sue tele sono ora scuri, torbidi e terrosi (Succede ai pianoforti di fiamme nere), ora stridenti, accesi e sfolgoranti (Le cose vanno indietro, 1979-1980).

34197Nell’opulenta e quasi monumentale opera di Sandro Chia (Firenze, 1946) ritroviamo l’influsso dei fauves e dei simbolisti, di Cézanne, Carrà, Picabia, Picasso, de Chirico. Rapida e gestuale, la sua tecnica genera veri e propri avvolgimenti ed ondosità dinamiche (Lara-Vinca Masini). Movimentate da turbinii e sbuffi di colore, popolate da anti-eroi fluttuanti come personaggi chagalliani, annegate in atmosfere acquose e sospese, le sue tele mostrano in prevalenza un contenuto di quotidianità. Vi si ritrovano figure comiche o drammatiche, il legame inscindibile tra l’essere umano e la natura, un certo richiamo alla sensualità e alla forza vitale. Sono caratterizzate da una pregnante visionarietà poetica e rimandano a moti passionali, violenti, d’eccitazione. Nei dipinti di Chia l’immagine è quasi sempre supportata dal significato del titolo, che riportato direttamente sul quadro acquista la struttura e la funzione di una didascalia o di una breve poesia. L’immediatezza del gesto pittorico, dunque, viene qui affiancata da una riflessione distaccata, ironica ed arguta.

34200Se nei giardini di Paladino oriente ed occidente interagiscono proficuamente tra loro, ciò accade in maniera ancora maggiore nell’opera di Francesco Clemente (Napoli, 1952). Nei suoi lavori, infatti, grazie alla necessità di ricerca e all’eclettismo che lo contraddistinguono, sono assai evidenti gli influssi di svariate culture. “Napoletano di nascita e nomade per vocazione” come lo definisce Bonito Oliva, Clemente vive tra New York e Roma, ma soprattutto compie numerosi viaggi approdando frequentemente in India e New Messico. Com’è facile appurare, l’autore partenopeo utilizza le tecniche più disparate: pittura, acquerello, fotografia, disegno, affresco, mosaico, acquaforte. In Giappone si dedica anche all’incisio
ne su legno, così come in India la pratica su carta per miniature ed arazzi. Egli rappresenta l’artista nomade per eccellenza, consapevole esploratore di luoghi e vagabondo sperimentatore di stili compositivi. Il linguaggio di Francesco Clemente è lacerante ed illuminante. Rivela un grande interesse per il corpo umano, sia dal punto di vista sessuale ed erotico che anatomico, in stretta relazione con le sue funzioni e la sua unicità. Nella sua opera ritroviamo svariati elementi simbolici ed autobiografici, così come continui riferimenti al dramma della vita e ai suoi legami con la storia, la religione, la nascita e la morte. La sua produzione è lucida, compiaciuta, risoluta; a tratti comica, grottesca e mordace. Negli acquerelli di Clemente le figure ed i soggetti si dispongono rapidamente in superficie, senza rimandare alla profondità materica tipica della Transavanguardia. Proprio come nell’acqua il pigmento galleggia leggero, dai suoi fogli e cartoncini affiora un’entità intrigante che “si trasforma e respira in maniera sessuale” (Carolyn Christov-Bakargiev).

Materia & Nomadismo

Transavanguardia

di Sonia Gallesio