Tutti pazzi per Amélie
Febbraio 7, 2002 in Cinema da Redazione
“Il favoloso mondo di Amélie” (“Le fabuleux destin de Amélie Poulain”) di Jean Philippe Jeunet, con Audrey Tautou, Matthieu Kassovitz e Rufus. Francia 2001
Lasciati alle spalle gli anni del pulp tarantiniano o quasi (Pulp Fiction, Assassini Nati, Trainspotting) al cinema trionfano le favole. Dopo “Harry Potter e la pietra filosofale” ed il colossale ed ipertrofico “Signore degli anelli” è la volta di Amélie, graziosa ragazza di Montmartre che ha una sola missione nella vita: quella di far felici le altre persone. “Il favoloso mondo di Amélie” è stato visto da venti milioni di spettatori e continuerà la sua marcia trionfale fino alla serata degli Oscar prevista per la fine di marzo. Il film ha già vinto il Festival di Karlovy Vary, si è aggiudicato il premio del pubblico al Festival di Toronto ed ha battuto “La stanza del figlio” di Nanni Moretti al Felix, l’Oscar Europeo della cinematografia. Nel Regno Unito è il più grande successo in lingua straniera di sempre insieme con “La vita è bella” di Benigni.
Audrey Tautou è così brava, graziosa ed intensa che difficilmente in futuro si riuscirà a scindere il suo bel viso da quell’anomalo caschetto e da quel sorriso insieme ingenuo e malizioso. Pochi film sono un tutt’uno con il proprio protagonista come lo è quest’opera fresca e leggera, divertente e commovente che – ne siamo sicuri – sfonderà in Italia come ha fatto nel resto del mondo. Il partner della Tautou sullo schermo è quel Mathieu Kassovitz che precedentemente avevamo apprezzato come regista de “L’odio” e de “I fiumi di porpora”, ma a corollario dei due giovani ci sono tutta una serie di ritrattini che paiono uscire da un vaudeville d’inizio secolo: la cassiera ipocondriaca, la portinaia romantica, il fruttivendolo dispotico, il commesso sognatore, il pittore misantropo, l’amante tradito e lo scrittore fallito.
Dietro la macchina da presa c’è Jean Philippe Jeunet che si rivelò una decina d’anni fa con “Delicatessen” e che ha già provato l’ebbrezza dello star system dirigendo il quarto episodio di “Alien”. In “Amélie” è rimasta proprio la vena grottesca e satirica di “Delicatessen”, Jeunet ha uno stile tutto suo, immaginifico e lirico, ma anche corrosivo e tagliente. Appartiene alla linea espressiva di Federico Fellini (per la sovrabbondanza degli oggetti e per la gradevolissima insistenza dell’accompagnamento sonoro), ma ricorda da vicino il belga Pascal Van Dormael (per la deformazione onirica della realtà, per la tematica dell’inettitudine).
Grazie ad una fotografia che lascia davvero incantati Jeunet riesce nella non facile impresa di coniugare la Parigi moderna e dinamica di fine millennio (la storia si svolge nel ’97) con la Parigi fatta di fisarmoniche, artisti e amanti che appartiene all’immaginario collettivo d’intere generazioni. Alcune scene, apparentemente lievi, hanno un tale vigore drammaturgico da togliere il fiato. Una su tutte: quella nella quale Amélie aiuta un cieco ad attraversare la strada. La giovane aiuta il non vedente, ma allo stesso tempo gli racconta ciò che si vede in quello scorcio di Parigi con una enumerazione gaddiana ed una descrizione calviniana di oggetti, persone ed eventi. Il vecchio, lasciato all’altro lato della strada, viene investito da un fascio di colori. Questo è grande cinema. Così come l’happy end in motocicletta che sa di nouvelle vague o gli stratagemmi messi in atto da Amélie per “giocare” a nascondino con il suo innamorato.
N.B. Un piccolo anacronismo. In una scena del film il pittore amico di Amélie guarda alla televisione una videocassetta fattagli pervenire dalla sua vicina di casa. E’ la registrazione di una corsa ciclistica animata dall’ingresso in gruppo di un cavallo imbizzarrito. Le immagini si riferiscono alla Gand – Wevelgem del 2000, mentre il film si svolge nel 1997. Un anacronismo che non nuoce affatto ad un film che si scaverà una piccola nicchia nella storia del cinema transalpino.
di Davide Mazzocco