Un padre troppo severo | Sudate Carte Racconti I edizione
Gennaio 29, 2003 in Sudate Carte da Redazione
Il calore era intenso. Pur essendo le prime ore della mattinata, la temperatura ricordava piuttosto quelle solite della mezza giornata. Ed il calore inquietava il generale Torres, seduto alla sua scrivania: ogni tanto, automaticamente, scuoteva il nodo della cravatta, come se cercasse di allentarla. Ma, mai e poi mai, lo avrebbe allentato: la rigidità, la severità, l’austerità, la conformità ai regolamenti, queste erano le caratteristiche peculiari del carattere dell’ufficiale; e non temeva tanto che qualche subalterno lo scoprisse con l’uniforme in disordine, quanto, invece, non poteva sopportare di trovarsi in disordine.
Le ampie e lisce pareti, completamente spoglie ad esclusione di una foto del Presidente della Repubblica in una spartana cornice di legno scuro, di color grigio verde si intonavano alla giacca della Guardia Civìl, del medesimo colore. Una robusta e massiccia scrivania di teak, sintomo della politica economica filonipponica del presidente, occupava nella quasi interezza l’ufficio, piccolo e disadorno, affidato al capo istruttore dell’Accademia. Il piano di lavoro rigurgitava di scartoffie che, ostinatamente, il generale teneva in ordine. Alle spalle della poltrona di pelle sintetica, poco appariscente, sebbene non scomoda, si apriva un ampio finestrone, da cui poteva ammirare, oltre il piazzale della caserma ed il locale della mensa, le colline di Chorillos e, all’orizzonte, le cime perennemente innevate delle Ande. Sfortunatamente, non poteva vedere l’oceano: questo gli avrebbe ricordato casa sua, a Magdalena, e gli avrebbe alleviato la mancanza della sua famiglia per tutta la durata giornata. L’unica stanza della palazzina comando, che si si volgeva verso il mare, era stata affidata al tenente colonnello Gutierrez, capo dell’Ufficio Amministrativo. Torres, così, aveva deciso di rinunciarvi. Del resto, non era uso ad affacciarsi sovente.
Il caldo sole estivo continuava la sua inesorabile ascesa, penetrando coi suoi raggi all’interno dell’ufficio. Il sudore imperlava il volto abbronzato e rugoso dell’uomo. Non durerà molto questo supplizio, pensava, al massimo fino a mezzogiorno. Mancavano due giorni al Natale, che avrebbe passato con la sua famiglia; quell’anno, il mese di dicembre era stato particolarmente caldo, e la tentazione di indossare l’uniforme estiva si era fatta pressante, soprattutto gli ultimi giorni. Vi aveva, alfine, rinunciato, per scrupolo suo personale.
Il suo pensiero vagava lontano, nel tempo, al suo pensionamento, non molto lontano, oramai. A tutto il tempo libero che avrebbe avuto, da dedicare completamente alla moglie e alle cinque figlie: durante la giornata, spesso, si soffermava su di loro, come, del resto, doveva succedere ad un padre devoto. Ed a casa, il rude e severo militare si comportava da padre affettuoso e gioviale.
Ben presto, però, la sua attenzione venne richiamata dallo squillo inatteso del telefono. Il centralinista gli annunciava una chiamata esterna. Mentre si collegava al corrispondente, cercava di capire chi potesse chiamarlo in ufficio. Una voce maschile, dal timbro forte, ma roca cominciò la comunicazione. “Signor Demetrio Armando Torres Zuñiga?”. Demetrio, ripeté tra sé. Era il suo primo nome, ma nessuno lo utilizzava. Non nella sua famiglia, non i suoi amici, neppure nelle situazioni più formali. Persino il comandante della base era abituato all’appellativo di Armando. “Buongiorno. Mi chiamo Pedro Coronado Pumassonco, e lavoro al Banco Nacional, agenzia di Magdalena””. La nostra banca; un lampo attraversò la mente del generale. E, prima che il suo interlocutore potesse comunicargli i suoi messaggi, un terrificante sospetto lo pervase.
Il giorno prima, imprudentemente, aveva prestato la carta di credito alle sue figlie più piccole, Erika e Veronica. Per comprare i regali di Natale, così avevano giustificato le bimbe. Una leggerezza, ne aveva la convinzione, che avrebbe pagata cara, e le cui conseguenze avrebbe sopportato a lungo. Pochi istanti, e i suoi sospetti si dimostrarono corretti. Siamo spiacenti di comunicarle che il suo conto è in rosso”. Mentre ascoltava il burocrate descrivergli la situazione e le conseguenze, da lui testé paventate, mentalmente calcolava i danni che la prodigalità delle due piccine aveva cagionato. Certo, non poteva arrabbiarsi, ma avrebbe parlato loro. Cercava di pensare a quali misure sarebbe ricorsa la moglie per pagare gli interessi passivi e ripianare il disavanzo. Salutò cordialmente l’impiegato, e posò la cornetta.
Non poté, però, concentrarsi sul dissesto finanziario, di cui aveva, appena, ricevuto notizia. Improvvisamente, il telefono squillò. Questa volta la voce era familiare. ” Armandito caro, come stai? ”. Il tono dolce ma deciso della moglie gli fece accelerare il battito del cuore. Una lunga pausa di silenzio. Alla moglie Edith piaceva notevolmente parlare al telefono, sicché, con le sue amiche, si adoperava per i profitti della Telefonica Peru.
Ma col marito, al telefono, non servivano molte parole: e, talvolta, i silenzi servivano a comunicare più profondamente e, senza dubbio senza fraintendimenti. Poiché, però, doveva comunicare alla moglie i gravi eventi occorsi alla mattinata e la sera precedente. “Cara, stamattina mi ha chiamato un impiegato della banca, avvertendomi che è stato svuotato il conto; e, casualmente, ieri ho lasciato la carta di credito ad Erika e Veronica”. La signora Edith, con dolcezza ma con fermezza, riusciva sempre a determinare ed influenzare l’umore del marito. Ed anche questa volta riuscì a raffreddare l’animo del consorte. Ma ben altre vicissitudini familiari inquietavano il generale, e non tardò ad esprimerle.
Ieri notte, Maria ed Anna sono tornate in ritardo”: il coprifuoco serale alle dieci doveva essere rigidamente rispettato. “No, ti sbagli: mi sembra che siano tornate entro le dieci”. Anche allora avrebbe voluto difendere le figlie ad oltranza; sapeva, d’altra parte, che quella semplice ed importante regola non si poteva trasgredire, cosicché avrebbe perorato solamente la riduzione della pena.
“Quando tornerò a casa dovremo parlare”. I discorsi, per quella sera, si erano velocemente accumulati; avrebbe trascorso il breve tempo precedente il riposo notturno cercando di spiegare a quattro figlie su cinque a tenere un comportamento più consono verso la famiglia. Fortunatamente la figlia più grande, Rosìo, non abitava più con loro, evitandogli ulteriori complicazioni.
Salutò premurosamente la moglie, rassicurandola sul fatto che non avrebbe tardato. Del resto, dalla Campiña a casa si impiega circa un’ora e mezzo, pensava, e, per quanto abbia fretta, non voglio correre; questo pensava il generale. Ci si avviava verso il periodo più caldo della giornata, il primo pomeriggio: dalle premesse, si annunciava una temperatura soffocante. S’avvicinava, tra l’altro, l’ora di pranzo, ma l’appetito, in quelle condizioni climatiche estreme, veniva a mancare. Rinunciò, quindi, al pranzo in mensa, preferendo rimanere in ufficio a disbrigare qualche pratica. Da quando era stato nominato capo istruttore, il suo lavoro si era trasformato, essenzialmente, in sola azione burocratica. Ciò gli dispiaceva, gli piacevano i suoi vecchi incarichi, ma, ormai vicino al pensionamento, non si lamentava più di nulla, neanche tra sé e sé.
Quando aveva già lavorato parecchie cartelle – aveva perso la cognizione del tempo – ancora, il telefono squillò.
“Papà”, era Rosìo, la figlia maggiore, già sposata da parecchi anni, aveva due figli, un maschio ed una femmina, di poco minori rispetto Erika e Veronica, “per caso, Enrique è venuto a dormire a casa?”. Enrique, naturalmente il marito, arrotondava il magro stipendio da poliziotto, guidando il taxi nel tempo libero. O, almeno, così pretendeva Rosìo: il pover’uomo, costretto a lavorare dalle sei del mattino, per poi guidare il taxi nel pomeriggio, fino a tarda sera, spesso, ultimamente, si rifugiava dai suoceri per recuperare qualche ora sacrificata al sonno. E la figlia, sospettosa, chiamava in continuazione a casa. Ma,
per la prima volta, arrivava a chiamare il padre in ufficio. E questi si rafforzò nell’idea che la figlia fosse decisamente autoritaria, sperando, in segreto, di non essere il modello ispiratore di quel carattere. “Cara, non lo so. Sono in ufficio, non so chi si trova in casa. Ma non penso che tuo marito…”. Papà , per favore. I bambini devono studiare, e le rate del mutuo. Abbiamo bisogno di soldi. Tu e la mamma mi rovinate il bilancio familiare.”. Sorrise tra sé, il generale, pensando ai propri problemi di soldi, ma senza farlo capire alla figlia, che avrebbe potuto esplodere. Si era in pieno pomeriggio, e la temperatura non accennava minimamente a calare. E, mentre congedava la figlia, scaricando sulla moglie l’onere di convincerla della presenza del marito per le afose strade di Lima, si aspergeva il sudore dalla fronte col proprio fazzoletto.
Oramai, giunto alla fine della giornata lavorativa, si preparava a ritornare a casa. Chiusa la cartelletta delle pratiche concluse, posò la penna in un rotondo portapenne di radica scuro, si alzò dalla poltroncina, certo non comoda, sulla quale, però, nonostante tutto, era rimasto seduto quasi tutto il giorno. Lentamente, senza fretta, prendeva la porta dell’ufficio, ripensando alle figlie. Certo molto vivaci, soprattutto le più piccole. E così, gli venne in mente quella volta che, venute a visitarlo e trovatolo in piscina, gli avevano rubato i vestiti, costringendolo a tornare a casa in taxi in costume da bagno. Sorrise. Ripensò ad altri scherzi, non seppe trattenere, ancora una volta una piacevole smorfia sulle labbra. Probabilmente, quella sera non avrebbe sgridato le figlie.
di Valerio Santoro