Una giornata memorabile
Febbraio 17, 2001 in il Traspiratore da Redazione
Una giornata memorabile inizia sempre con un brutto risveglio.
Sudato mi dimenavo sotto le lenzuola in un dormiveglia agitato dagli ultimi incubi del sonno. Aprii gli occhi e li fissai sulla finestra, il sole attraversava le tende e mi feriva le pupille non ancora assuefatte alla luce del nuovo giorno. Scesi dal letto e m’infilai le ciabatte con fare automatico, bagno, colazione e fuori a cercare lavoro.
Negli ultimi tre mesi avevo fatto sette mestieri diversi: pony-express, barista, steward durante le fiere, guida turistica per il Museo Moderno, avevo venduto giornali la notte e saponette di giorno, anche l’assicuratore avevo fatto. Duravo al massimo dieci giorni, poi mi stufavo e mollavo tutto.
Erano due settimane che non facevo niente e i risparmi stavano per finire: in ritardo con le bollette vedevo la situazione scivolarmi via piano piano.
Mi stavo dirigendo verso l’ufficio di collocamento quando un nero mi s’avvicinò con fare circospetto e… “Fumo amico? Quanto ne vuoi?”
Deviammo insieme in un vicolo e comprai un “deca” di Marocchino.
“E’ buono amico, va’ tranquillo.”
“Fammi un’aggiunta: ti ho chiesto diecimila, non cinque.”
Concluso l’affare mi girai il primo joint della giornata; respiravo a pieni polmoni e l’hashish entrava a addolcire il ricordo degli incubi notturni.
Era un periodo che facevo sempre lo stesso sogno: io solo in una stanza mal illuminata; un ronzio come quello di una ventola come sottofondo. Mi vedo la fronte imperlata di sudore mentre m’avvicino sempre più alla mia figura; mi vedo ripararmi con le braccia, farmi curvo nel tentativo di nascondere l’intero corpo. Poi un coltello in primo piano comincia ad abbassarsi sul mio viso: io che mi ammazzo con le mie mani. Di solito a questo punto mi svegliavo, in rari casi continuavo a pugnalarmi per lungo tempo.
Spensi la canna centrando un tombino e ripresi il cammino. Andavo deciso, nella direzione opposta a quella dell’ufficio di collocamento, e fumavo una sigaretta dietro l’altra. Dopo pochi istanti ero seduto al tavolo di casa, mi giravo il secondo spinello sfogliando con una mano il numero d’agosto di Playboy. Al secondo seguì il terzo, le tette di Pamela Andersson sembravano sgonfiarsi, come tutto nel resto della stanza; mi restava ancora fumo sufficiente per l’ultimo joint. Con fare rallentato riuscii anche in quest’ultima impresa: spino girato, spino fumato.
Mi trascinai a letto dopo aver chiuso le imposte e subito m’addormentai di un sonno tranquillo e sereno. Un sonno vuoto come può esserlo quello di un feto nella pancia della madre, privo di immagini perché nulla ancora ha visto, sereno perché nulla ancora ne ha turbato l’esistenza.
Il sonno di un feto, i sogni di un angelo.
di Gianluca Ventura