Una grande Medea inaugura il Regio
Ottobre 23, 2008 in Spettacoli da Stefano Mola
Diciamo subito che con questa Medea la stagione 2008-2009 del Teatro Regio è partita benissimo. Prima di tutto, assai meritoria la scelta di aprire con un titolo che non era mai stato rappresentato a Torino e che pur non essendo magari nella top ten e senza avere arie da greatest hits è un lavoro di una drammaticità e di un’inquietudine di assoluto interesse.
La musica di Cherubini è un fremito, sempre a due passi dal guardare in faccia l’orrore. In un certo senso, è come se fosse il coro (nel senso greco del termine): oscilla, ondeggia, scende nelle profondità. Accompagna l’azione in scena con grande fluidità, ma senza sudditanza. Ed Evelino Pidò, sul podio, riesce a condurre l’orchestra del Regio in modo che tutto questo sia reso con grande attenzione. Quel fremito si percepisce chiaramente, entra poco a poco nelle ossa, ci spinge sempre più dentro la vicenda.
Nel terzo atto Cherubini mette in scena un vero flusso di coscienza della protagonista: Medea cammina come sul ghiaccio, deve decidere se cedere alla sua folle vendetta, punire Giasone uccidendo i figli che hanno avuto insieme, oppure lasciar perdere, fuggire in esilio, con l’unico dolente parziale contrappunto della fedele Neris, che la esorta a guardare in faccia l’amore di madre.
Dunque ci vuole innanzi tutto una grandissima protagonista, praticamente sempre sul palco. Serve una gran voce accompagnata da talento per la recitazione. Il trionfo tributato ad Anna Caterina Antonacci è meritato dal primo all’ultimo applauso. Non solo per il canto, ineccepibile, ma il suo aggirarsi disperato, per la passionalità scura, per un paio di declamati quasi veristi che ci vengono addosso e quasi ci fanno ritrarre, per come paiono strappati da dentro, dolorosamente impossibili da contenere. Accanto a lei, ci è piaciuta moltissimo Sara Mingardo nelle vesti di Neris, con una voce che è soprattutto pathos sofferente ed impotente. Il resto del cast è omogeneo, ed all’altezza: la bella voce di Giuseppe Filianoti (Giasone), l’ofeliana Glauce di Cinzia Forte, l’autorevole Creonte di Giovanni Battista Parodi.
Veniamo infine all’allestimento. Il regista Hugo de Ana ha scelto di trasporre visivamente la vicenda in un indefinito inizio novecento, cui richiamano i costumi. Una specie di età dell’innocenza e della fiducia, o almeno è questo il clima che si respira, soprattutto all’inizio, in quella specie di pic-nic durante il quale Glauce ci espone le sue (a posteriori assai giustificate) inquietudini. Suggestione: mi piace pensare che questo primo novecento sia davvero primo, ovvero prima del 1915. Un mondo positivista, di tecnologia nascente, che ancora non sa l’orrore del primo conflitto mondiale. Così come Corinto non immagina che una madre possa uccidere i suoi figli.
Come sottolinea Guido Padano nel saggio Medea, l’amore assassino (nel libro che il Regio ha preparato, come sempre di ottimo livello), la protagonista fa del dolore tragico una scelta. Nodo importantissimo: non si tratta qui dello sfortunatissimo Edipo, il quale uccide il padre e sposa la madre, ma praticamente senza dolo, per un incrocio perverso di fato, profezie eccetera. Qui fato e dei c’entrano poco o niente. C’è Medea che alle prese con l’ennesimo inconsistente personaggio maschile dell’opera (non dimentichiamo che Giasone in fondo la lascia perché sposando Glauce può sperare di salire al trono) sceglie di vendicarsi con un delitto tra i più tremendi: uccidere i suoi stessi figli.
Allora non servono pepli e colonne: qui siamo dentro il pozzo scurissimo dell’animo umano, dentro vicende che purtroppo la cronaca ci serve spesso sotto gli occhi. E forse avere tuniche e quant’altro forse poteva essere un tentativo di allontanamento, un dire: ma sì, è una cosa successa tanto tempo fa. Invece no
La scena poi è essenziale. Una spiaggia, che a volte si trasforma in sala grazie alla calata di teli scuri dal soffitto. In fondo c’è il mare, che ci è praticamente sempre precluso da un dominante veliero arenato sulla sabbia. La nave degli argonauti, certo. Ma sempre seguendo le mie personali suggestioni, a me piace pensare che quella nave che non si trova dove dovrebbe essere, che non può più navigare, che è inclinata sofferente su un fianco, in fondo non sia null’altro che il simbolo di Medea. Medea che è rotta, che non funziona più. Medea che non naviga più nella vita, ma è invece arenata, accartocciata sull’orrore. Medea che volge le spalle alla fecondità (il mare), Medea che ha occhi solo per la vendetta.
di Stefano Mola