Veleni di Dio, medicine del diavolo
Febbraio 10, 2012 in Libri da Stefano Mola
Autore |
Mia Couto |
Titolo | Veleni di Dio, medicine del diavolo |
Editore | Voland |
Pagine | 160 |
Prezzo | 13,00 Euro |
Un poeta capace di fare della storia del suo paese, il Mozambico, una grande metafora: la metafora della speranza e della magia come antagoniste di una realtà sinistra.
Luis Sepúlveda
Le parole con cui Luis Sepúlveda ha sintetizzato l’opera dello scrittore mozambicano Mia Couto si adattano perfettamente a questo romanzo portato meritoriamente in Italia da Voland. In Veleni di Dio, medicine del diavolo, Mia Couto ci porta a Villa Cacimba, città di nebbia, dove arriva per amore un giovane medico portoghese, Sidónio Rosa. Sidónio sta cercando di ricongiungersi con Deolinda, con cui ha vissuto a Lisbona una intensa storia d’amore. Ma a Villa Cacimba per il momento ci sono soltanto i suoi genitori, Munda e Bartolomeu, legati da un laccio oscuro, inestricabile, fatto di rabbia, desiderio, rimpianto, sogno, forse colpe e tradimenti.
Bartolomeu è malato, ormai ridotto a un sottile vestito per le sue ossa, vive rinchiuso nella sua camera, quando qualcuno bussa risponde “perché?”. Bartolomeu ha lavorato come meccanico su un piroscafo, e questo abbandono della terraferma ha prodotto in lui uno spaesamento esistenziale e filosofico. Smozzica le sue massime sulla vita e sull’amore durante le quotidiane visite che il giovane medico fa nella speranza di avere finalmente notizie di Deolinda. Sidónio si trova così invischiato in una doppia ragnatela,
perché i racconti di Bartolomeu non coincidono mai con quelli di Munda. Né con quelli del sindaco, a poco a poco emergente come il terzo vertice d’un triangolo.
L’impossibilità di stabilire una verità in questo rapporto non è che il sintomo di un’incomprensione più grande, quella di un europeo per un paese e una cultura che è stata inghiottita solo in superficie e mai veramente assimilata. Sidónio non potrà che indebolirsi e sprofondare, fino alla torbida conclusione.
Mia Couto ci regala un romanzo assai denso, dove le frasi sono scolpite come sentenze, ritmate in dialoghi serrati, in una specie di claustrofobia teatrale.