Venezia

Luglio 28, 2003 in Libri da Stefano Mola

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L’acqua è un elemento strano e affascinante. Sembra sia l’origine della vita, eppure da lei si può soltanto uscire, così come dal liquido amniotico, e non più ritornare. O meglio, per il cammino inverso non basta la nostra dotazione naturale. Occorrono precauzioni e strumenti, oggetti che ci fanno buffi ed esotici come pinne e mute e bombole, e ci è concesso un tempo breve. Così come con precauzione talvolta si immergono le mani nell’inconscio. L’acqua è necessaria: senza di essa la vita non può esistere. Di lei, siamo fatti per gran percentuale. Eppure, corrompe e distrugge. Una permanenza troppo lunga di esseri od oggetti terrestri in acqua genera putrefazione. Così come essere a contatto con goccia o corrente poco a poco erode, cancella, smussa le forme fino alla riduzione atomica della sabbia. Forse perché essenza dell’acqua è il movimento, mostra refrattarietà verso quanto si presenta sotto geometrie che per inconscia superbia si sperano definitive. Agisce quindi probabilmente da monito, da avviso contro l’aspirazione al punto d’equilibrio. La vita stessa è purtroppo testimonianza di trasformazione continua, irreversibilità termodinamica, lotta estenuante contro l’entropia egualizzatrice. Anche in questo senso, dunque, acqua è vita.

Ecco quindi il miracolo di Venezia, l’incredibile e smisurata ambizione di Venezia. Sospendere sull’acqua, che inafferrabilmente muta e corrompe proprio perché è fonte e materia della vita, forme, pesi, case, chiese, commerci, esistenze, amori: tutte cose che in qualche modo vorremmo eterne. Sfidare quindi l’oscuro, incessante e logorante movimento di trasformazione sottostante appoggiandovisi sopra, proprio dove è più forte e ingombrante la sua dimensione di inconscio e di corrosione, ovvero sul mare. Quasi facendo finta di niente. Ostentatamente ignorando tutto quanto c’è sotto e le sue implicazioni. Ecco l’incredibile e apparente leggerezza di Venezia, che nasce da un’inconsapevole constatazione interiore di impossibilità: se c’è peso deve affondare, dunque non può che essere impalpabile. Ecco quindi il teatro: se non può essere pesante come sulla terra ferma deve essere qualcosa di diverso, miraggio, scenografia, cartapesta, statue di angeli bianchissimi che suonano trombe protendendosi da facciate, colore, luce che arriva da ogni direzione, dall’alto e dal basso, per riflesso sull’acqua. Perché solo la finzione può dare l’illusione dell’immutabilità: aprendo un libro a distanza di tempo, le parole restano sempre le stesse. Ecco perché un soffitto dipinto da Tiepolo deve stare a Venezia, dove sembra meno impossibile che carri, divinità, putti e dame stiano tranquillamente appoggiati sopra soffici e panciute nuvole, come se fossero su una roccia. Alzando gli occhi verso l’affresco il basso si specchia nell’alto, si ritrova l’allegoria d’una città intera.

E se finzione deve essere, che lo sia fino in fondo. Quindi, maschere e carnevale. Se costruire una città sull’acqua è sperare di sfuggire all’inevitabile mutamento biologico, aspirazione alla libertà più impossibile, allora che questo sogno sia totale. La maschera illude di rovesciare le incrostazioni dei ruoli, e nella sua fissità nasconde il tempo. Se una mutazione deve esserci, che sia di colori e forme e vestiti e fogge, non corruzione. Venezia, luce, finzione, teatro, carnevale, principio del piacere non può che essere sospesa sull’inconscio del mare, che di notte, piano, con la sua oscurità che si fonde a quella del cielo, si impossessa della città. E nel silenzio rotto solo da parole, da passi o da rare imbarcazioni, sembra ancora che ogni mistero sia possibile, dietro una finestra da cui si intravede una candela, sopra la scalinata di un ponte, in un campiello deserto.

Ma l’acqua, nella sua incarnazione di mare, tollera con difficoltà questa smisurata ambizione. E non si contenta di una lenta opera di corrosione, del lavorio delle onde, dell’incrostazione salmastra. Di tanto in tanto, abbandona il suo assedio paziente con sortite di acqua alta, più o meno violente. Una sera l’ho vista salire piano in Piazza San Marco, come se ogni onda fosse una mano, una moltitudine di piccole mani scure che tentanavano di aggrapparsi alla superficie della piazza per trascinarla giù verso il fondo, conquistandola lentamente ma inarrestabilmente centimetro dopo centimetro. Lo sciacquio delle onde, rumore solitamente romantico oppure rilassante, risuonava contro quelle pietre quasi sinistro.

Movendo qualche passo più avanti, verso il Canal Grande, la Chiesa della Salute comunque svettava ancora di più di bianco nella sua illuminazione notturna, ancora più emozionante e meringata, per il pericolo che poco più in là avevo sfiorato.

di Stefano Mola