Warum Aubergine?
Aprile 21, 2002 in Pietro d'Agostino da Stefano Mola
Partiamo dall’ultimo atto. Cioè dalla conclusione, ma non solo. Accanto alla conclusione mettiamo anche una sua rima, rappresentazione (che è fatti di atti). Quindi, una conclusione che è anche una ripetizione (l’ultimo atto di una rappresentazione è una conclusione ciclica). Infatti, quanto ora succede, succede tutti i pleniluni d’Agosto. A Castellarmoso, costa settentrionale della Sicilia, una striscia di case strizzata tra la spiaggia di ciottoli grossi e la ferrovia. Dietro la ferrovia la terra si alza a piombo, e una strada si avvita fino al viadotto. Nella striscia di case, una tristemente nuda, senza intonaco, fatalisticamente grigia. Tetto inesistente, se per tetto intendiamo la parte con le tegole sopra. Qui, il “sopra” è solo una spianata da cui spuntoni di cemento con tondini a mo’ di dita mozze si protendono verso l’alto, suggerendo una potenziale ma ormai improbabile continuazione dell’edificio. Una quadrato di lamiera ricopre lo sbocco delle scale, forse lo ripara dalla poca pioggia. Luna enorme in mezzo al cielo. Cicale. Attesa. Rumore di ferraglia su cemento. Il quadrato di lamiera si sposta. Delle mani protendono fuori una sedia pieghevole di legno e la appoggiano sul “sopra”. Pausa. Poi è come se sorgesse dal cemento un animale mitologico: appare la tromba di un vecchio grammofono, appoggiato sulla testa di un uomo, che ora è in piedi sul “sopra”. L’uomo appoggia per terra il grammofono come fosse una reliquia e apre la sedia rivolgendola verso il mare. Scompare. Riemerge. Ha con sé un disco. Lo estrae dalla custodia, ci soffia amorevolmente su per mandar via la polvere, lo mette sul grammofono, carica la manovella, appoggia la puntina, si siede. Alcuni secondi di fruscio. Arpeggi di un’orchestra. Ricami di fiati. Una voce di donna inizia a cantare casta diva che inargenti queste sacre antiche piante. L’uomo, nonostante il mare e questa luna, chiude gli occhi fino alla fine dell’aria. Dopo qualche minuto dalla fine della musica, in rigoroso ordine inverso (disco, grammofono, sedia, lamiera) tutto ritorna al suo posto, fino all’agosto successivo.
L’uomo si chiama Federico Raffadali. A vederlo ora, sulla terrazza, coi capelli grigi, che bizzarramente si espandono a cornucopia verso l’esterno, oltre le orecchie, i baffi importanti (grigi pure loro) che spiovono sul labbro superiore, la camicia bianca sopra pantaloni neri sorretti dalle bretelle, sembrerebbe un tranquillo e nostalgico pensionato, magari melomane. A seguire indietro la sua linea del tempo, tracciata su una cartina (non dico del mondo, ma dell’Europa), congiungendo tutte i luoghi in cui Federico ha messo piede, ci aspetteremmo probabilmente di vedere un unico punto nero, un circoletto attorno a Castellarmoso, calcato per usura e ripetizione quasi a trapassare la cartina, al massimo una linea leggera fino a Palermo, o sulla punta dell’Etna. E invece, dobbiamo alzare gli occhi verso il continente, ma più in alto di Roma e perfino di Milano, più in alto della Svizzera e dell’Austria che schiacciano giù la testa dell’Italia. Subito altre immagini accorrono. Treni colmi, valigie di cartone, lacrime di nostalgia grosse e aspre come limoni, sguardi dispersi e interrogativi di fronte all’aspro (sempre come i limoni, ma senza il loro colore solare) scatarrare della lingua tedesca nella sua austera stitichezza di vocali, giornate povere di luce ma ricche di freddo. Eccetera. Invece no. Acquietiamo la giusta commozione (ci scusi il tono leggero chi ha provato sulla sua pelle come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale, nelle parole di uno che di esilio se ne intende), asciughiamo il ciglio, concentriamoci su questa linea che sale fino a Norimberga. E prima di immaginare altri drammatici scenari che potrebbero nascere leggendo la linea a ritroso, da Norimberga a Castellarmoso (Frederich-Federico, criminale nazista sfuggito al ben noto processo e ritiratosi a svernare l’inverno dell’esistenza sotto il cappotto leggero di una falsa identità di pensionato siciliano, a nascondere non un limone ma un frutto marcio di crudeltà e orrore), avviciniamo gli occhi alla cartina, aperti, senza attese, leggiamo la data scritta piccolissima a fianco della città. Una data fatidica: 1977.
E infatti eccolo Federico, i capelli rigogliosi e ricci e rossi, una zazzera tondeggiante come un nero americano appunto anni 70, occhiali con la montatura spessa e nera, le lenti rettangolari, lo zaino in spalla, e dentro la zaino tra vestiti appallottolati un po’ sporchi e un po’ no, “L’uomo a una dimensione” di Marcuse sgualcito e sottolineato e sottolineato e sottolineato, insieme a una grammatica tedesca e a un dizionario tascabile italiano-tedesco-tedesco-italiano (entrambi poco sottolineati). Dietro le spalle le lacrime della madre e il mutismo di rifiuto sdegnoso del padre, dopo che le parole vado a Berlino erano risuonate nell’aria (e poi una porta richiusa e un pugno alzato). Dunque Norimberga dovrebbe essere solo una tappa di testimonianza nella città del processo e delle adunate. Fa molto freddo. C’è una pioggia sottile. Federico è di fronte alla St. Sebald Kirche, stanco e un po’ affamato, sta cercando l’ostello della gioventù. La St Sebald Kirche non ha una porta centrale, al suo posto un crocifisso, diretto, senza preamboli, come se da subito venisse dichiarata l’essenza della fede. Un Cristo dal corpo solido, i muscoli torniti, la sofferenza rivelata quasi soltanto dalla bocca semiaperta. Sembra un corpo trattenuto a forza dai chiodi non tanto dal cadere, quanto quasi dall’esplodere in avanti, come se al suo interno fosse contenuta una forza irresistibile di trasformazione. Mentre osserva questo crocifisso, nel silenzio (domenica pomeriggio, in giro non c’è quasi nessuno) una voce di donna che canta traspira dai muri della chiesa. Federico entra. Lo slancio sottile delle colonne gotiche risucchia lo sguardo in verticale, fa scattare il mento verso l’alto (sensazione di ridimensionamento di fronte a tutto lo spazio sovrastante). L’aria sembra dimostrare un nuovo stato della materia. Non è più semplicemente qualcosa di impalpabile che entra nei polmoni e poi esce. È sostanza: musica che riempie tutto lo spazio. Non c’è più un qui sotto (pavimento) e un lassù (soffitto della navata), distinti, scollegati. L’aria forse non esiste più (per questo viene da trattenere il respiro) è sostituita da qualcosa di denso come acqua: è come essere in immersione. Il mento di Federico continua a rimanere inchiodato verso l’alto, non cerca con lo sguardo la sorgente del suono, e questo aiuta l’incantesimo. La purezza della voce fa pensare a qualcosa di assolutamente depurato da sofferenza, imperfezione, tristezza, non collegabile con legno, metallo, carne, o qualsiasi cosa sulla terra si muova, produca suono, abbia luce o la rifletta soltanto (se tutto questo potere di una voce femminile vi sembra incredibile, provate ad ascoltare l’aria della Regina della Notte nel Flauto Magico di Mozart e poi ne riparliamo).
Improvvisamente la musica finisce, e lo sguardo disorientato di Federico inizia a vagare nella chiesa come un bambino cui sia scomparso dalle mani il giocattolo preferito. È così che la vede. Una ragazza, giovane, minuta, bionda, i capelli lunghi divisi a metà che scendono sulle spalle. In piedi, non al centro della navata principale ma leggermente spostata verso destra, anch’essa praticamente trascurabile davanti alle altissime vetrate dell’abside. La ragazza parlotta piano con l’uomo che suona l’organo, probabilmente il suo maestro di canto. Federico rimane incerto sul da farsi, si sfila lentissimamente lo zaino, lo appoggia accanto a un banco, si siede, aspetta. La musica ricomincia. Federico fissa la ragazza, per la geometria della chiesa gli sembra quasi di guardare per terra tanto lo sguardo è attir
ato verso l’alto. La voce riempie nuovamente tutto lo spazio. Una ragazza così piccola che riesce a riempire uno spazio così grande. È immobile, tranne che per i movimenti innaturali che la bocca deve fare per emettere le note. L’impressione di Federico è che lei sia un supporto per il suono (che in realtà verrebbe da non si sa bene dove). Soprattutto quando la voce si sposta verso gli acuti parrebbe che questi potrebbero trapassarle la testa, se non venissero incanalati fuori a riempire l’aria. Federico segue con apprensione l’evolversi della melodia (la melodia è nota, è il disco che ascolta sempre il nonno, è Norma, casta diva che inargenti queste sacre antiche piante), trema al solo pensiero che possa arrivare un errore.
All’interno del cervello di Federico si scatenano correnti di sostanze chimiche. Ci piacerebbe saper descrivere biochimicamente, in modo esatto, come il suono, vibrazione dell’aria, dopo aver colpito le orecchie di Federico, si trasformi in un qualcosa che le terminazioni nervose portano fino al cervello. Capire perché questo medesimo suono ascoltato nella casa del nonno a Castellarmoso non abbia prodotto lo stesso effetto. Spiegare, (meglio se risolvendo un sistema di equazioni) quanta responsabilità hanno i fotoni che, colpendo la retina di Federico, generano altre correnti chimiche che poi costruiscono l’immagine della ragazza da qualche altra parte nel cervello. Ma la nostra ignoranza è grande. Ci viene curiosamente in testa un’immagine. Alcuni neuroni (in un libro li abbiamo visti disegnati come una specie di uovo al tegamino con dei tentacoli, alcuni dei quali chiamati sinapsi) si stanno agitando. Come imbianchini, immergono le sinapsi nelle correnti chimiche che passano di lì, e cancellano una scritta su una parete. La scritta è “Berlino”. Altri neuroni, usando sempre le sinapsi (immergendole, eccetera), dipingono a tinte pastello, sempre su quel muro, l’immagine della ragazza che canta. Altri, sullo fondo, metodicamente, ripongono in un armadio parole, slogans, bandiere rosse.
Warum Aubergine? chiede Helga (sorriso con sfumatura di incoraggiamento, scoprendo lievemente i denti e portando con la mano una ciocca di capelli dietro l’orecchio). Federico è come un muro cui stanno sottraendo dei mattoni qua e là (stabilità in pericolo, spifferi, eccetera). Was? chiede debolmente (la conversazione sta andando avanti in modo faticoso, rimbalzando tra inglese e tedesco). Helga ora decisamente ride (denti del tutto scoperti, segnale che Federico potrebbe considerare positivo, se dai buchi del muro ora non colasse la melma dello scoramento), e allungando piano l’indice definisce una retta immaginaria che porta alla melanzana nel piatto davanti a loro, sotto la luce al neon, sopra il tavolo d’alluminio, dentro la sala cucina comune dell’ostello, melanzana da cui si affacciano timidamente i sedanini di grano duro acquistati a caro prezzo da un compaesano emigrato, incontrato per caso dopo una capillare ricerca per tutta Norimberga.
Dunque Federico ha compiuto notevoli passi avanti (anche se in direzione diversa rispetto a quella prevista, ricordiamo sempre le sinapsi che cancellano la scritta Berlino). Se immaginiamo per un attimo quei quadri medievali in cui vengono rappresentate in zone diverse della stessa tela più scene cronologicamente non omogenee (se volessimo essere dissacranti potremmo dire che mancano i riquadri e poi la tavola del fumetto è nata), vedremmo Federico rincorrere Helga per le strade di Norimberga, piazzarsi davanti a lei ed esclamare Norma! una specie di concetto sintetico che riassume ti ho sentito cantare nella chiesa l’aria casta diva che io conosco ovviamente in quanto italiano nonché siciliano e l’hai cantata benissimo, anche se questa è una specie di copertina, direi trasparente, visto che sotto si vede benissimo la scritta ti vorrei conoscere, scritta peraltro di valenza internazionale, visto che Helga l’ha capito benissimo fin da subito, così come fin da subito ha sorriso (timidamente ma incuriosita) di fronte a questo giovane ansante (Federico non era propriamente uno sportivo) con questa buffa zazzera di capelli rossi e l’eskimo d’ordinanza, per di più italiano (paese dei sogni di Helga quale aspirante soprano lirico). In questo arazzo Norimberga che stiamo dipingendo li scorgiamo poi separati da un tavolino ma uniti da una tazza di tè, sorseggiata in un locale fumoso, pieno di studenti, proprio ai bordi della piazza principale. Federico per riflesso condizionato aveva messo sul tavolo “L’uomo a una dimensione” come una specie di carta d’identità, ma Helga non lo ha visto o se lo ha visto lo ha ignorato, mentre Federico riesce rapidamente ad anticare il dizionario di tedesco, sfogliandolo con la metodicità allucinata di un cercatore d’oro che setaccia la sabbia di un torrente (Helga indulgente e divertita di fronte alla testa china di lui, gocce di sudore sulla fronte di Federico). Nella scena successiva sul tavolo della sala da tè è rimasto solo “L’uomo a una dimensione”. Infine, guardando sempre il Norimberga arazzo, in alto, verso il castello, notte nerissima, cielo stellato, freddo polare, brividi di Federico e un po’ anche brividi di Helga. Ci sarebbero apparentemente tutte le condizioni perché un braccio si possa anche allungare, non foss’altro che per delle considerazioni puramente e nobilmente termiche. In effetti le spalle sono veramente vicine, e se un braccio si allungasse a cingerle non sarebbe respinto (sulla base di valutazioni che vanno ben al di là di considerazioni aridamente e scientificamente termiche) ma in fondo c’è una sensazione tipo non è proprio fondamentale che accada adesso, va bene lo stesso (anche se questa sensazione sembra appartenere maggiormente a Helga, guardando Federico nella camerata dell’ostello della gioventù darsi silenziosamente dei pugni in testa).
Così finalmente si arriva a poco prima della fatal domanda (Warum Aubergine? non un’altra). Federico non sapendo più quale pretesto inventare si è illuminato ricordando la pasta alla norma, perché non cucinare per Helga la pasta alla norma? certo, perché no, in fondo nell’ostello c’è la cucina comune. Basterebbe saperla fare, basterebbe aver riflettuto anche solo una volta solo un attimo a Castellarmoso su cosa poteva mai succedere prima che il piatto giungesse in tavola, invece di aver sempre tuffato voracemente la testa sul piatto. E non è d’aiuto telefonare alla madre, le monete scendono con una teutonica e rapida precisione, non così rapide come le lacrime della madre che sgorgano copiose all’altro capo del filo, la voce soffocata dai singhiozzi, Federico non osa neanche chiedere. Chi, allora? Gli amici? Escluso. La cugina Anna? Escluso (equivaleva a diventare la barzelletta di Castellermoso). Seduto sul marciapiede, capo tra le mani, finalmente un’illuminazione. Nonno Federì. Uomo di mondo, indipendente, inaspettatamente moderno, l’unico ad aver contribuito finanziariamente (di nascosto) alla missione tedesca di Federico. Nonno Federì infatti non batte ciglio. Accetta perfino la chiamata a carico, capisce tutto subito, reagisce con precisione e delicatezza, concedendosi solo una spruzzata d’ironia qua e là. Si assicura che Federico abbia scritto tutto per bene (ingredienti, procedimento, accorgimenti) obbligandolo a ripetere due volte.
Warum Aubergine? Federico si rigira nel letto dell’ostello. Lì per lì, ha tamponato farfugliando una lunga tirata in italiano, trincerandosi dietro concetti difficili da tradurre, fingendo di non trovare le parole sul dizionario. Del resto, si ripete affranto, che cosa c’entrano le volgari melanzane, violacee, tritate, con tutti quei semi, e la ricotta poi (melanzane e ricotta peraltro costate, come si è detto, una quantità di marchi non indifferente al mercato nero dell’emigrazione italiana) con la purezza di Norma? (la purezza di Norma nel senso della protagonista dell’opera omonima è un concetto emerso abbastanza di recente nel sistema di pensiero di Federico, a volerla dire tutta pi
ù che altro che Norma tende a confondersi con Helga). Perché nella pasta alla Norma ci sono le melanzane? Federico si sente perduto. Helga penserà di essere stata presa per il naso (invece che per la gola), penserà a un volgare trucco da italiano, a una di quelle cose acchiappaturisti (Helga in realtà dorme tranquillamente, anche se nella calma apparente della notte, alcuni neuroni, sempre facendo uso delle sinapsi, stanno disegnando un concetto tipo ma non è che questo italiano sarà incapace di prendere l’iniziativa, sembra un po’ troppo addormentato – crudele ironia dell’inconscio di fronte all’insonnia di Federico).
Nonno Federì. Non c’è altra soluzione. Nonno Federì sicuramente lo sa. E poi il nonno si alza sempre presto, beve un caffé e fa un giro per la vigna, va a fumare una sigaretta fino alla curva dove poi si vede il mare e Castellarmoso lì sotto. È l’alba. Federico scalcia le coperte, si veste in fretta, si precipita alla cabina telefonica. Il nonno accetta anche la seconda telefonata a carico, divertito senza darlo troppo a vedere (è chiaro che ha capito tutto nonostante Federico di Helga non abbia fatto alcuna menzione: aveva detto che “voleva cucinare qualcosa di italiano per i compagni del collettivo di Norimberga”), capisce anche che non può dare subito l’unico consiglio sensato (e dalle un bacio, Federì, fai valere il sangue di tuo nonno, gli verrebbe subito da dire). Capisce che è necessario un inquadramento teorico.
Federico, inizia il nonno, ma tu lo sai che cos’è Norma?
Un’opera.
Ma certo che è un’opera, ma qual’è il dramma di quest’opera?
(silenzio di Federico)
Norma, sacerdotessa figlia del capo dei Druidi, ama Pollione, proconsole romano invasore, il quale ora non la ama più perché si è innamorato di Adalgisa, altra sacerdotessa. Per farla breve, alla fine Norma muore sul rogo insieme a Pollione mentre Adalgisa si salva.
(Federico non capisce il legame con la melanzana, gli sembra che il nonno la prenda un po’ larga)
Federico, Norma è una tragedia della follia d’amore! E tu lo sai come veniva chiamata un tempo la melanzana?
(silenzio di Federico)
Malum insanum! Frutto che conduce alla pazzia! I medici credevano che originasse febbri e crisi epilettiche! Dunque la melanzana, tondeggiante come un cuore gonfio, è il cuore di Norma gonfio della sua follia amorosa! Del resto Federico, quando Norma canta casta diva che inargenti eccetera, a chi si rivolge?
(silenzio di Federico)
Alla luna! Casta diva è la luna, cui Norma si rivolge in una preghiera di pace. Ma il lunatico è il pazzo, e dunque questa preghiera apparentemente di pace altro non è che l’omaggio inconscio di una devota alla dea della sua follia.
(pronunciando inconsciamente inconscio il nonno fa la mossa decisiva e convincente, potenza della psicoanalisi).
Hai capito allora perché nella pasta alla Norma ci sono le melanzane?
Grazie nonno, ora lo spiegherò ai compagni.
Mentre i neuroni del nonno si danno dei cinque con le sinapsi (forse questa immagine è un po’ antistorica ma rende bene l’idea, non sono sicuro che nel 1977 darsi un cinque fosse una pratica diffusa) Federico sente un entusiasmo dentro. Gli sembra che il suo dramma personale sia improvvisamente nobilitato. Follia, amore, inconscio fanno rafting nelle ripide correnti chimiche del suo cervello. Corre fino all’ostello, abbranca il dizionario di tedesco, ormai sgualcito, prende un foglio, si siede, inizia furiosamente a scrivere, poi cancella, strappa il foglio ne prende una altro, ricancella, ristrappa, suda, grugnisce nel tentativo di volgere in tedesco il discorso del nonno, non può mica andare davanti ad Helga così, occorre far vedere che il problema era realmente la traduzione.
Helga scosta la tendina della sua camera da letto, controlla. Federico è sempre lì, passeggia sul marciapiede, avanti e indietro, leggendo e rileggendo uno stropicciato foglio di carta, di tanto in tanto cava fuori una biro, fa una correzione. È da circa mezz’ora che è lì. Non ha osato suonare il campanello. Temeva che ad aprire fosse la madre di Helga (non aveva pronta una parte in tedesco anche per lei). Dunque sta aspettando che Helga esca di casa, nel frattempo cerca di mettersi in testa la traduzione del discorso del nonno. Helga sorride. Decide di scendere. Ecco, adesso è lì davanti a lui, Federico se la trova improvvisamente davanti alzando al testa dal foglio, i capelli biondissimi che risplendono nella luce tersa del mattino freddissimo. Inizia a farfugliare il discorso in tedesco che sembrava così chiaro fino a pochi secondi prima. Helga vorrebbe ridere, ma è anche un po’ commossa, il tedesco di Federico è assolutamente improbabile e sgrammatico, il discorso è del tutto incomprensibile, ma i neuroni di Helga decidono comunque di salvare alcune parole chiave, ad esempio, Herz (cuore), Liebe (amore), wahnsinnig (folle), parole che in fondo i suoi neuroni stavano aspettando. Così, a un certo punto, lo abbraccia, si baciano.
E ritorniamo fulmineamente all’inizio, cioè alla fine. A Castellarmoso. A Federico, che è appena ritornato dentro casa dopo essere stato sul tetto (il sopra). Ripone il disco e il grammofono sotto il ritratto del nonno (purtroppo mancato cinque anni prima,andare sul tetto e suonare il disco è per Federico il modo di ricordarlo), passa davanti a una camera da letto. Dentro, due giovani biondissimi dormono. Federico li guarda, poi va a raggiungere Helga.
Nota dell’autore:
Per chi volesse saperne di più sulla trama di Norma e leggere il libretto dell’opera, http://utenti.lycos.it/classical/libretti/norma.htm. Quanto alla vera origine della pasta alla Norma, cercando in internet ho trovato due teorie. La prima racconta che, durante un pranzo tra artisti, sia arrivato a tavola un piatto di spaghetti condito con ricotta salata infornata, salsa di pomodoro, melanzane fritte e basilico. Alla fine qualcuno dei partecipanti, ispirato dai sapori e dagli odori della pietanza, esclamò: “ma questa è Norma!”. A Catania, Bellini e la Norma sono sinonimi di tutto ciò che è eccelso. La seconda, vuole che dopo il fiasco della prima della Norma di Bellini alla Scala di Milano, il maestro si consolò con un piatto appositamente preparato da uno chef catanese. Pasta a simulare l’Etna, condita con salsa di pomodoro, rossa come la lava bollente, le melanzane fritte, nere come la roccia lavica e una nevicata di ricotta salata: era appena stata inventata la pasta ccù a Norma. Che la melanzana fosse chiamata Malum Insanum è vero, leggete una storia esaustiva dell’ortaggio qui: http://www.saveurs.sympatico.ca/ency_3/aubergin/histoire.htm
di Stefano Mola